Vampeta, il bidone per eccellenza. Da lui, ovviamente, è obbligatorio partire per questo affascinante tour tra i più grandi bidoni del calcio italiano dell’ultimo decennio.
Vampeta (“piccolo vampiro”), nome d’arte di Marcos André Batista Santos arriva in Italia nel 2000, su consiglio dell’ex compagno di squadra al PSV Ronaldo. Ad aggiudicarselo è Massimo Moratti, in quegli anni ottimo scopritore di bidoni, che rimpingua con 15 milioni di dollari le classe del Corinthians. In Italia Vampeta si presenta benissimo, andando in gol (anche se con l’evidente complicità di Peruzzi) all’esordio in Supercoppa Italiana (l’Inter verrà sconfitta 4-3) contro la Lazio. La strada per quello che all’epoca (e forse tuttora) era il giocatore più amato dai gay, diventa in salita: tanta tribuna per lui, con sporadiche apparizioni in campo tra Coppa Uefa e Coppa Italia, dove gioca, il 29 novembre 2000, la sua ultima partita nerazzurra in un disastroso 6-1 subito dal Parma. Per lui l’unica soluzione è espatriare, e la società, pur di liberarsene, accetta in cambio Stephane Dalmat dal Paris Saint Germain. Dalmat segue le sue orme, giocando un po’ di più, l’altro giocatore diventato nerazzurro per merito suo, Adriano, pare sulla buona strada.
Altro interista (ce ne sono a iosa, ma mi limiterò ai casi più eclatanti di “bidonismo nerazzurro”) presente su questo immaginario podio dei bidoni è senza dubbio Vratislav Gresko, unico bidone in grado di far perdere, pur se con la collaborazione di un ceco ex Manchester United e di un ex ferroviere, addirittura uno scudetto. Il biondo slovacco, voluto all’Inter da Marco Tardelli, che ne era rimasto stregato quando allenava l’under 21 azzurra in un match contro la Slovacchia, compie il suo capolavoro il 5 maggio 2002. Contro una Lazio in lizza per un piazzamento Uefa, Vratislav decide che il tricolore sulle maglie bianconere è più bello che su quelle nerazzurre, e si esalta. L’Inter va in vantaggio due volte, prima con Vieri e poi con Di Biagio, ma i clamorosi svarioni di Gresko consentono per due volte a Poborsky di riportare i suoi in parità. L’Inter, psicologicamente a pezzi, crolla nella ripresa e i gol di Simeone, indimenticato ex, e di Simone Inzaghi, fissano il risultato sul 4-2. Lo scudetto è della Juventus, vittoriosa 2-0 ad Udine; l’Inter è addirittura terza, costretta ai preliminari di Champions; io e Ronaldo siamo in lacrime; Gresko? Lui si rifugia a Bratislava e si giustifica dicendo di non essere l’unico colpevole di ciò che è accaduto. Viene poi mandato il prestito al Parma, poi espatria: Blackburn, Norimberga e adesso Bayer Leverkusen, la stessa squadra da cui l’Inter l’aveva prelevato nel 2000 per 10 miliardi e mezzo di lire.
Terza piazza del podio per un nome tristemente noto ai tifosi laziali: Gaizka Mendieta. Il biondo centrocampista cresciuto nel Castellón approdò alla Lazio nel 2001, per la stratosferica cifra di 93 miliardi di lire. In biancazzurro bastarono 19 presenze per ricevere il benservito, arrivato al termine della stagione. Un anno al Barça e poi il passaggio al Middlesbrough, dove tuttora si guadagna la pagnotta.
Altro ex laziale meritevole di far parte del tour è senza dubbio Iván de la Peña. “El Pelat” arrivò alla Lazio dal Barcellona per la prima volta nel 1998. 14 partite, 0 gol e biglietto aereo per Marsiglia. Una stagione con l’OM, poi il ritorno al Barça. A Cagnotti non resta che riportarlo in Italia per dargli una seconda chance, ma lui non la sfrutta. Il definitivo ritorno in patria, a Barcellona, stavolta sponda Espanyol, avviene nel 2002.
Dopo questo breve excursus tra i laziali, torniamo ai nerazzurri. Come non parlare del miglior giocatore macedone del secolo, il mitico Darko Pancev? “Il Cobra”, 84 gol in 6 anni con il Vardar Skopje, 84 in 4 con la Stella Rossa, approdò all’Inter nel 1992. 12 partite, 1 gol e un biglietto andata e ritorno per Lipsia. Dopo una stagione in Germania, condita da 2 gol in 10 partite, il ritorno in nerazzurro. Stavolta i gol sono ben 2, in 7 apparizioni. Al “Ramarro” (così era orma soprannominato l’ex cobra) non restò che chiudere la carriera in Svizzera, al Sion, dopo una breve parentesi tedesca con il Fortuna Düsseldorf.
Ultimo nerazzurro europeo – poi passeremo ai sudamericani -, Jeremie Brechet, indimenticato bidonee della fascia sinistra della Beneamata. Brechet, cresciuto nel Lione, si veste di nerazzurro nel 2003/04 per appena 15 – terrificanti - volte, sufficienti perché Zaccheroni gli dica che con lui in panchina non avrebbe mai giocato. Brechet si vede costretto a lasciare Appiano Gentile per la gioia di ogni nerazzurro e passa alla Real Sociedad. Due anni in Spagna, poi il passaggio al Sochaux, di cui è attualmente capitano.
Adesso tocca ai nerazzurri “made in South America”. Partiamo dal primo acquisto dell’era Moratti: Sebastian “Avioncito” (così detto per la sua esultanza dopo una rete, mai vista in Italia) Rambert. Arriva in coppia con Zanetti; l’attuale capitano dura da 13 anni, lui va via dopo nemmeno tre mesi in cui colleziona una sola apparizione, in Coppa Italia, contro la Fiorenzuola. Una volta lasciata l’Inter, si accasa al Saragozza, 20 presenze, 5 gol e ritorno in patria. Dopo diverse stagioni spese, senza brillare, tra Boca, River e Indipendiente, torna in Europa per una fugace apparizione con l’Iraklis di Salonicco, salvo poi tornare in Argentina, all’Arsenal di Sarandí, per chiudere la carriera nel 2003.
Passiamo a quattro giocatori con uno stesso comune denominatore: Paco Casal. Partiamo dal più famoso, il “Chino” Recoba, che non mi sento di definire “bidone”. Nella categoria rientrano però pienamente gli altri tre: Antonio Pacheco, Gonzalo Sorondo e Fabian Carini. Il primo viene portato all’Inter proprio da Casal, che pretende un suo inserimento nell’affare Recoba. In nerazzurro Pacheco gioca una partita in due anni, venendo poi sbolognato all’Espanyol. Sorondo, temuto (dagli interisti) difensore uruguagio, approda all’Inter nel 2001, dopo che gli osservatori nerazzurri se ne erano innamorati in un Uruguay-Brasile 1-0 del primo luglio 2001. Con l’Inter Sorondo colleziona insuccessi, e viene sbolognato a destra e a manca. Finalmente qualcuno decide di riscattarlo, questo qualcuno è il Charlton, che se ne libera poco dopo rispedendolo in Uruguay al Defensor. Adesso è all’Inter, di Porto Alegre, per fortuna. Il quarto “casaliano” è Fabian Carini, che la Juventus preleva dal Danubio nel 2000, salvo poi mandarlo in prestito allo Standard di Liegi due anni dopo. Dopo lo Standard, con cui trova anche il modo di segnare una rete, giunge all’Inter nell’affare-Cannavaro. 4 partite in nerazzurro e prestito a Cagliari, dove, dopo 9 deludenti partite, viene sostituito da Chimenti. Adesso è al Real Murcia, in Spagna.
Carrellata di nerazzurri finita? No, mancano ancora due brasiliani. Il primo è Caio, arrivato all’Inter nel ’95 dopo uno splendido mondiale under 20 in cui viene premiato come miglior giocatore. In nerazzurro però non ottiene gli stessi risultati della Bocconi, dove dimostra di valere più sui libri che sui campi da gioco. L’Inter prova anche a mandarlo al Napoli, ma fallisce anche lì, e l’unica cosa da fare è rispedirlo in Brasile. Dopo aver girovagato per l’immenso paese sudamericano, lascia il calcio nel 2005 per dedicarsi alla carriera di modello.
Secondo brasiliano e ultimo nerazzurro (mi rifiuto di inserire Bergkamp in questa lista di bidoni) è Gilberto. Gilberto da Silva Melo, dopo un discreto passato come giocatore di calcio a 5, approda all’Inter nel ’99, proveniente dal Cruzeiro. In nerazzurro dura tre partite, due di campionato e una di Coppa Italia, poi torna in Brasile, al Vasco da Gama. Oggi è titolare irremovibile dell’Herta Berlino ed è nel giro della nazionale brasiliana, con cui ha giocato da titolare gli scorsi mondiali.
I bidoni a Milano, però, non sono solo nerazzurri, anche in rossonero abbondano.
Su tutti Ibrahim Ba: cresciuto calcisticamente nel Le Havre, passa al Bordeaux, dove lo notano gli osservatori milanisti, che lo vestono di rossonero. Nel 97/98 è addirittura titolare, ruolo che perde nel successivo anno, in cui i rossoneri diventano campioni d’Italia. Poi viene mandato in prestito al Perugia, e lì iniziano i primi sintomi della malattia comune a tutti i giocatori nominati in questo articolo: il bidonismo. Malattia che raggiunge il massimo apice nel 2004, quando, dopo aver girovagato tra Marsiglia, Milan e Bolton, si accasa al Çaykur Rizespor. Dopo due apparizioni turche, passa al Djurgården, in Svezia, con cui rescinde il contratto nel gennaio 2006. Decide allora di tornare in Italia, al Varese, ma solo per allenarsi. Da luglio è al Milan, che lo ha riaccolto per provare a restituirlo al calcio, anche se la sua sindrome sembra incurabile anche ai preparatissimi medici di Milan Lab.
In rossonero, però, non ha deluso solo lui: Winston Bogarde e Patrick Kluivert vi dicono qualcosa? I due olandesi non ebbero molta fortuna in maglia rossonera. Furono acquistati (dall’Ajax) e ceduti (al Barça) in coppia; il primo ripartì da Milanello alla volta di Barcellona un anno dopo esservi approdato, insoddisfatto dello scarso impiego (appena 3 partite per lui); il secondo, idem.
A Milanello possono fallire addirittura i brasiliani, che sembrano invece essere una delle colonie più felici del campionato. I due esempi più lampanti sono Rivaldo, approdato al Milan come campione e rilasciato come calciatore finito, salvo poi smentire il tutto nelle stagioni greche, e Ricardo Oliveira, arrivato a Milano per sostituire Sheva, dell’ucraino ha ereditato solamente il numero di maglia. Piccola curiosità: appartengono a lui due record calcistici legati al denaro: il primo è quello di giocatore che ha ricevuto la multa più alta (ben due volte di 1 milione di € dal Betis) e quello dei gol più cari: 3 gol con il Milan, che lo aveva pagato di 21 milioni di €, con una media di 7 milioni guadagnati a gol.
Ci sarebbero da raccontare tante altre storie, come quelle di Ipoua e Jardel, ad esempio, probabilmente i due attaccanti più scarsi degli ultimi 10 anni di serie A, oppure quelle dei bidoni di Juve, Roma e Lazio, ma, per ora, basta così.
Antonio Giusto