lunedì 19 novembre 2007

Il mio miglior colpo di testa


Christian Panucci segna il gol dell'1-2

Stavolta i protagonisti non sono Carlo Verdone e Silvio Muccino ma Christian Panucci e il Puma v.106 ball da lui scaraventato alle spalle di Gordon sabato sera. Questo però non è il primo colpo di testa di Panucci, ma sicuramente il migliore. In precedenza, infatti, un rifiuto ad entrare in un Roma-Reggina in cui Capello lo aveva tenuto inizialmente in panchina gli costo centodiecimila euro. Una bazzecola, in confronto ad un altro rifiuto di entrare, stavolta ai tempi dell’Inter: Marcello Lippi lo mandò a scaldarsi, poi gli chiese se era pronto ad entrare ed il terzino destro di Savona non lo degnò di risposta. Da allora i rapporti con Lippi peggiorarono sempre più, costandogli il posto in nazionale nell’era da C.T. dell’allenatore viareggino e quindi il mondiale, vinto, del 2006. E proprio dopo il mondiale Panucci era convinto che la nazionale non l’avrebbe mai più neppure sfiorata. A fargli cambiare idea è stato però Donadoni, suo amico e compagno di squadra ai tempi del Milan, che lo ha riconvocato in azzurro tre anni e 3 mesi dopo l’ultima volta in nazionale del terzino destro della Roma, datata 22 giugno 2006, il giorno di Italia-Bulgaria 2-1, ma anche il giorno della partita-farsa Svezia-Danimarca 2-2, che costò agli azzurri l’eliminazione dall’Europeo e a Trapattoni l’esonero. Il Trap andò ad allenare il Benefica, Panucci disse addio alla nazionale visto l’approdo di Lippi sulla panchina azzurra. Il 12 settembre di quest’anno, la svolta: l’Italia gioca una partita decisiva in Ucraina e Donadoni lo richiama in azzurro visto il bisogno di uomini d’esperienza per una partita tanto delicata. Christian risponde presente, e dimostra di valere ancora la nazionale anche nella sfida con la Georgia. Contro la Scozia, dopo aver staccato il pass per Euro 2008, ha esultato soprattutto per aver aiutato un amico, di cui abbiamo già parlato: Roberto Donadoni. I due si sono conosciuti ai tempi del Milan. Milan dove Panucci approdò nel 1993, ad appena 20 anni. In rossonero al primo anno vinse lo Scudetto e la Coppa dei Campioni a cui a breve si aggiunsero un titolo di campione d’Europa under 21 – a cui ne seguirà un altro due anni dopo -, una Supercoppa Italiana ed una Europea. Panucci sembra lanciato verso una carriera di primo piano, e così è, ma non al Milan: un litigio con Sacchi gli fa perdere il posto da titolare, e nel gennaio ’96 fa le valigie ed approda al Real, è la prima meringa italiana. Con i galacticos Panucci vince uno scudetto alla prima stagione e una Champions League alla seconda. Lui però vuole tornare in Italia, e, per farlo, sceglie l’Inter, il posto migliore in cui approdare se sei stato cacciato dal Milan. Ad Appiano Gentile Panucci si allena però per un solo anno, visto che un altro colpo di testa, il suo peggiore, lo porta a litigare con Marcello Lippi, che se ne sbarazza. Tenta allora l’esperienza inglese, al Chelsea di Zola, dove resta però appena mezza stagione, il tempo di giocare 8 partite senza metterla mai dentro e passa al Monaco, dove invece mette il pallone in porta 3 volte in 9 partite. Si guadagna la riconferma nel principato, ma dopo 5 partite estive di campionato, nel 2001 se lo aggiudica la Roma, che aveva già provato a strapparlo all’Inter senza successo. A Roma Panucci trova il suo habitat naturale. In giallorosso approda l’anno dopo lo scudetto, nel 2001/02. Con la Roma è a quota 183 partite, condite da 12 gol. Due di questi sono arrivati il 9 maggio 2007, contro l’Inter nella finale di Coppa Italia, certamente il picco più alto da lui raggiunto in giallorosso. Il 17 maggio dopo la partita di ritorno, ha alzato al cielo la Coppa Italia. E chissà che non possa alzare al cielo un altro trofeo al cielo, il 29 giugno 2008.
Antonio Giusto


Fonte: Sportbeat

martedì 13 novembre 2007

Chrisantus all'Amburgo


Vi ricordate di Macauley Chrisantus, il 17enne nigeriano capocannoniere dei mondiali under 17 che mi aveva stragato quest'estate? Spero di sì, altrimenti vi rimando a questo post agostano.
Comunque Macauley ha appena firmato un contratto con l'Amburgo (qui il comunicato ufficiale sul sito della società anseatica). Maca, buona fortuna!

Mama(dou) che partita!



Battere in Lione in Francia è diffide, ancor più difficile se si gioca allo Gerland, e la difficoltà tocca picchi ancor più alti se si è penultimi in classifica. Vincere in queste condizioni, però, si può, e a dimostarlo ci ha pensato il Marsiglia. L’OM ha battuto il Lione a casa propria, lasciando il campionato aperto visto che il Nancy è appena 3 punti dietro gli esacampioni di Francia e deve recuperare una partita. Il campionato quasi certamente finirà per la settima volta consecutiva nelle mani del Lione, ma gli appassionati di calcio francese dovranno ringraziare Mamadou Niang, autore della doppietta decisiva e soprattutto Carlos Lopez. Perché Carlos Lopez? Perché fu lui a convincere un giovane Mama Niang a tornare a giocare a calcio dopo che il nativo di Matam, comune di 20000 anime situato nel nord-est del Senegal, aveva deciso di lasciare il calcio ad appena 18 anni. Dopo essere stato convinto da Lopez a tornare al calcio, fu il suo stesso ex allenatore al centro di formazione del Le Havre a scegliere la destinazione: Troyes, allenatore Alain Perrain, che ieri ha fatto soffrire. La prima stagione a Troyes la trascorre negli amatori, riuscendo a gudagnarsi la fiducia proprio di Perrain, che l’anno successivo lo promuove in prima squadra. L’annata non è delle più fortunate, e in appena 10 partite, tutte giocate partendo dalla panchina, mette il pallone in rete in appena due occasioni. L’anno successivo parte ancora come riserva, ma durante la stagione viene finalmente promosso titolare. I gol però continuano ad arrivare con il contagocce, ma Mama non demorde, e nella stagione successiva continua ad impegnarsi, ma gli appena 3 gol segnati in 20 partite di Ligue 1 lo convincono ad accettare il declassamento in Ligue 2, al Metz di Jean Fernandez. In Lorena forma una coppia da sogno con Emmanuel Adebayor, e i 5 gol in 12 partite gli valgono la chiamata dello Strasburgo, in Ligue 1. In Alsazia trova il serbo Ljuboja, che fa la sua fortuna: in coppia con lui segna infatti ben 8 gol, che gli valgono la definitiva entrata nel giro della nazionale senegalese. A gennaio però Ljuboja passa al PSG, e Niang ne risente, segnando appena un altro gol e iniziando a ritrovarsi in panchina sempre più spesso. È però l’arrivo di Pagis a fare la sua fortuna. In coppia con l’attuale attaccante del Rennes Niang segna 15 gol, che con i 13 messi a segno da “Pagistrale” fanno 28. Per 7 milioni lo prende il Marsiglia, dove ritrova Jean Fernandez, il tecnico con cui esplose al Metz. Nelle prime due stagioni con l’OM va in doppia cifra, sfiorando la vittoria in Coppa di Francia nel 2006 e nel 2007, anno in cui arriva secondo in campionato alle spalle del Lione e garantendosi la partecipazione alla Champions League, dove quest’anno è già andato a segno due volte, e chissà che grazie ai gol di Mama non si avveri la predizione del telecronista di Lione-Marsiglia di ieri sera, ovvero che una delle due squadra raggiunga la finale della coppa più ambita.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 5 novembre 2007

Il primo mattone della salvezza


Christian Riganò esulta. Marca

Una casa si costruisce mattone su mattone, e Christian Riganò lo sa bene, visto che prima di sfondare nel calcio faceva il muratore. Proprio Riganò ha avuto l’onore di posizionare il primo mattone della salvezza del Levante tutto italiano di De Biasi. Per farlo gli sono bastati trentaquattro minuti nei quali ha segnato i 3 gol (a 0) all’Almeria che hanno consentito al suo Levante di portare a casa i suoi primi 3 punti stagionali, dopo che ne aveva conquistato solo 1, contro il Murcia alla seconda giornata, nelle precedenti 10 partite. Quell’unico punto in 10 partite aveva però portato i tifosi e non solo loro a contestare la squadra. Il primo a pagare è stato ovviamente il tecnico Abel Resino, sostituito dall’ex granata Gianni De Biasi, il quinto italiano del Levante. Anche Riganò, però, era stato oggetto della critica dei tifosi levantini, che gli rimproveravano un eccessivo uso di sigarette, ma lui, dopo aver prontamente ribadito «non reputo un problema il fatto che un giocatore si conceda una o due sigarette dopo i pasti. Capirei le critiche se uno fumasse un pacchetto al giorno, ma non è il mio caso. Non credo - ha concluso l’ex bomber messinese - che il Levante sia ultimo in classifica per questo». Il fumo – vizio condiviso con molti altri calciatori, tre nomi su tutti: Platini (il cui vizio non faceva piacere all’avvocato al quale replicava che l’importante era che non fumasse Benetti, mediano tutto polmoni della Juve nella seconda metà degli Anni 70), Zidane e Buffon, quindi, per il nostro non è un problema. Problemi che ha però creato a Cobeño, numero 1 dell’Almeria.
Problemi che Riganò, agli esordi, era costretto a sventare: ai tempi del Lipari, infatti, Riganò giocava in difesa. Fu spostato in attacco in occasione di un match per il quale il Lipari non aveva attaccanti disponibili, e la stazza del bomber oliano convinse il suo allenatore a provarlo come prima punta. L’esperimento riuscì, e da allora Riganò è un attaccante, e che attaccante! Dopo aver trascorso quattro anni al Lipari, corona il suo sogno giocando nel Messina, ma solo per una stagione, visto che i soli 3 gol in 29 partite di campionato non gli valgono la riconferma. Lui non si perde d’animo e, dopo due anni all’Igea Virtus, approda al Taranto, in C2. Con 14 gol contribuisce alla promozione in C1 degli Ionici, e con 27 reti in 33 partite nella stagione successiva si fa notare dai dirigenti della Fiorentina, che cercano giocatori per ripartire dalla C2 con la Florentia Viola. Lui accetta di buon grado, e dopo 30 gol in 32 partite nella prima stagione, trova quello che aveva perso a Taranto per colpa del Catania in un’accessissima finale play off: la serie B. Proprio nella serie cadetta si fa alfiere del detto «chi sa segnare segna dovunque, dalla C2 alla A», mettendo a segno 23 reti, che valgono alla Fiorentina l’accesso ai play off dove i viola battono il Perugina e tornano in A dopo due anni di serie minori. Con la Fiorentina gioca anche la propria prima stagione di serie A, in cui va però a segno appena 4 volte in 18 partite a causa di un infortunio patito alla prima giornata. Lui non si scoraggia, e l’anno successivo va a Empoli, visto che a Firenze è chiuso dal neoacquisto Toni. Con gli azzurri è titolare, ma i gol sono appena 5 in 33 partite, e la Viola lo cede al Messina, dove torna a distanza di nove anni. Con i peloritani dimostra di essere un attaccante vero, di razza, e sfruttando il suo fisico, il suo fiuto del gol sotto porta e soprattutto una grande rabbia, segna 19 gol. In appena 27 partite perché un infortunio lo ferma per due mesi. La sua grande stagione non è però sufficiente per la salvezza dei giallorossi, che decidono di cederlo visto che il suo ingaggio pare eccessivo per la serie B. A farsi avanti sono diverse squadre, su tutti il Livorno, che però se lo fa soffiare all’ultimo minuto dal Levante, dove va ad infoltire la colonia azzurra. Il primo gol arriva alla quarta giornata contro l’Athletic Bilbao con un colpo di testa su cross di Pedro Leon. Gol però inutile, a differenza di questa tripletta, dopo la quale i tifosi, per festeggiare, una sigaretta potrebbero anche offrirgliela.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

venerdì 2 novembre 2007

Vampeta e i suoi fratelli



Vampeta, il bidone per eccellenza. Da lui, ovviamente, è obbligatorio partire per questo affascinante tour tra i più grandi bidoni del calcio italiano dell’ultimo decennio.
Vampeta (“piccolo vampiro”), nome d’arte di Marcos André Batista Santos arriva in Italia nel 2000, su consiglio dell’ex compagno di squadra al PSV Ronaldo. Ad aggiudicarselo è Massimo Moratti, in quegli anni ottimo scopritore di bidoni, che rimpingua con 15 milioni di dollari le classe del Corinthians. In Italia Vampeta si presenta benissimo, andando in gol (anche se con l’evidente complicità di Peruzzi) all’esordio in Supercoppa Italiana (l’Inter verrà sconfitta 4-3) contro la Lazio. La strada per quello che all’epoca (e forse tuttora) era il giocatore più amato dai gay, diventa in salita: tanta tribuna per lui, con sporadiche apparizioni in campo tra Coppa Uefa e Coppa Italia, dove gioca, il 29 novembre 2000, la sua ultima partita nerazzurra in un disastroso 6-1 subito dal Parma. Per lui l’unica soluzione è espatriare, e la società, pur di liberarsene, accetta in cambio Stephane Dalmat dal Paris Saint Germain. Dalmat segue le sue orme, giocando un po’ di più, l’altro giocatore diventato nerazzurro per merito suo, Adriano, pare sulla buona strada.
Altro interista (ce ne sono a iosa, ma mi limiterò ai casi più eclatanti di “bidonismo nerazzurro”) presente su questo immaginario podio dei bidoni è senza dubbio Vratislav Gresko, unico bidone in grado di far perdere, pur se con la collaborazione di un ceco ex Manchester United e di un ex ferroviere, addirittura uno scudetto. Il biondo slovacco, voluto all’Inter da Marco Tardelli, che ne era rimasto stregato quando allenava l’under 21 azzurra in un match contro la Slovacchia, compie il suo capolavoro il 5 maggio 2002. Contro una Lazio in lizza per un piazzamento Uefa, Vratislav decide che il tricolore sulle maglie bianconere è più bello che su quelle nerazzurre, e si esalta. L’Inter va in vantaggio due volte, prima con Vieri e poi con Di Biagio, ma i clamorosi svarioni di Gresko consentono per due volte a Poborsky di riportare i suoi in parità. L’Inter, psicologicamente a pezzi, crolla nella ripresa e i gol di Simeone, indimenticato ex, e di Simone Inzaghi, fissano il risultato sul 4-2. Lo scudetto è della Juventus, vittoriosa 2-0 ad Udine; l’Inter è addirittura terza, costretta ai preliminari di Champions; io e Ronaldo siamo in lacrime; Gresko? Lui si rifugia a Bratislava e si giustifica dicendo di non essere l’unico colpevole di ciò che è accaduto. Viene poi mandato il prestito al Parma, poi espatria: Blackburn, Norimberga e adesso Bayer Leverkusen, la stessa squadra da cui l’Inter l’aveva prelevato nel 2000 per 10 miliardi e mezzo di lire.
Terza piazza del podio per un nome tristemente noto ai tifosi laziali: Gaizka Mendieta. Il biondo centrocampista cresciuto nel Castellón approdò alla Lazio nel 2001, per la stratosferica cifra di 93 miliardi di lire. In biancazzurro bastarono 19 presenze per ricevere il benservito, arrivato al termine della stagione. Un anno al Barça e poi il passaggio al Middlesbrough, dove tuttora si guadagna la pagnotta.
Altro ex laziale meritevole di far parte del tour è senza dubbio Iván de la Peña. “El Pelat” arrivò alla Lazio dal Barcellona per la prima volta nel 1998. 14 partite, 0 gol e biglietto aereo per Marsiglia. Una stagione con l’OM, poi il ritorno al Barça. A Cagnotti non resta che riportarlo in Italia per dargli una seconda chance, ma lui non la sfrutta. Il definitivo ritorno in patria, a Barcellona, stavolta sponda Espanyol, avviene nel 2002.
Dopo questo breve excursus tra i laziali, torniamo ai nerazzurri. Come non parlare del miglior giocatore macedone del secolo, il mitico Darko Pancev? “Il Cobra”, 84 gol in 6 anni con il Vardar Skopje, 84 in 4 con la Stella Rossa, approdò all’Inter nel 1992. 12 partite, 1 gol e un biglietto andata e ritorno per Lipsia. Dopo una stagione in Germania, condita da 2 gol in 10 partite, il ritorno in nerazzurro. Stavolta i gol sono ben 2, in 7 apparizioni. Al “Ramarro” (così era orma soprannominato l’ex cobra) non restò che chiudere la carriera in Svizzera, al Sion, dopo una breve parentesi tedesca con il Fortuna Düsseldorf.
Ultimo nerazzurro europeo – poi passeremo ai sudamericani -, Jeremie Brechet, indimenticato bidonee della fascia sinistra della Beneamata. Brechet, cresciuto nel Lione, si veste di nerazzurro nel 2003/04 per appena 15 – terrificanti - volte, sufficienti perché Zaccheroni gli dica che con lui in panchina non avrebbe mai giocato. Brechet si vede costretto a lasciare Appiano Gentile per la gioia di ogni nerazzurro e passa alla Real Sociedad. Due anni in Spagna, poi il passaggio al Sochaux, di cui è attualmente capitano.
Adesso tocca ai nerazzurri “made in South America”. Partiamo dal primo acquisto dell’era Moratti: Sebastian “Avioncito” (così detto per la sua esultanza dopo una rete, mai vista in Italia) Rambert. Arriva in coppia con Zanetti; l’attuale capitano dura da 13 anni, lui va via dopo nemmeno tre mesi in cui colleziona una sola apparizione, in Coppa Italia, contro la Fiorenzuola. Una volta lasciata l’Inter, si accasa al Saragozza, 20 presenze, 5 gol e ritorno in patria. Dopo diverse stagioni spese, senza brillare, tra Boca, River e Indipendiente, torna in Europa per una fugace apparizione con l’Iraklis di Salonicco, salvo poi tornare in Argentina, all’Arsenal di Sarandí, per chiudere la carriera nel 2003.
Passiamo a quattro giocatori con uno stesso comune denominatore: Paco Casal. Partiamo dal più famoso, il “Chino” Recoba, che non mi sento di definire “bidone”. Nella categoria rientrano però pienamente gli altri tre: Antonio Pacheco, Gonzalo Sorondo e Fabian Carini. Il primo viene portato all’Inter proprio da Casal, che pretende un suo inserimento nell’affare Recoba. In nerazzurro Pacheco gioca una partita in due anni, venendo poi sbolognato all’Espanyol. Sorondo, temuto (dagli interisti) difensore uruguagio, approda all’Inter nel 2001, dopo che gli osservatori nerazzurri se ne erano innamorati in un Uruguay-Brasile 1-0 del primo luglio 2001. Con l’Inter Sorondo colleziona insuccessi, e viene sbolognato a destra e a manca. Finalmente qualcuno decide di riscattarlo, questo qualcuno è il Charlton, che se ne libera poco dopo rispedendolo in Uruguay al Defensor. Adesso è all’Inter, di Porto Alegre, per fortuna. Il quarto “casaliano” è Fabian Carini, che la Juventus preleva dal Danubio nel 2000, salvo poi mandarlo in prestito allo Standard di Liegi due anni dopo. Dopo lo Standard, con cui trova anche il modo di segnare una rete, giunge all’Inter nell’affare-Cannavaro. 4 partite in nerazzurro e prestito a Cagliari, dove, dopo 9 deludenti partite, viene sostituito da Chimenti. Adesso è al Real Murcia, in Spagna.
Carrellata di nerazzurri finita? No, mancano ancora due brasiliani. Il primo è Caio, arrivato all’Inter nel ’95 dopo uno splendido mondiale under 20 in cui viene premiato come miglior giocatore. In nerazzurro però non ottiene gli stessi risultati della Bocconi, dove dimostra di valere più sui libri che sui campi da gioco. L’Inter prova anche a mandarlo al Napoli, ma fallisce anche lì, e l’unica cosa da fare è rispedirlo in Brasile. Dopo aver girovagato per l’immenso paese sudamericano, lascia il calcio nel 2005 per dedicarsi alla carriera di modello.
Secondo brasiliano e ultimo nerazzurro (mi rifiuto di inserire Bergkamp in questa lista di bidoni) è Gilberto. Gilberto da Silva Melo, dopo un discreto passato come giocatore di calcio a 5, approda all’Inter nel ’99, proveniente dal Cruzeiro. In nerazzurro dura tre partite, due di campionato e una di Coppa Italia, poi torna in Brasile, al Vasco da Gama. Oggi è titolare irremovibile dell’Herta Berlino ed è nel giro della nazionale brasiliana, con cui ha giocato da titolare gli scorsi mondiali.
I bidoni a Milano, però, non sono solo nerazzurri, anche in rossonero abbondano.
Su tutti Ibrahim Ba: cresciuto calcisticamente nel Le Havre, passa al Bordeaux, dove lo notano gli osservatori milanisti, che lo vestono di rossonero. Nel 97/98 è addirittura titolare, ruolo che perde nel successivo anno, in cui i rossoneri diventano campioni d’Italia. Poi viene mandato in prestito al Perugia, e lì iniziano i primi sintomi della malattia comune a tutti i giocatori nominati in questo articolo: il bidonismo. Malattia che raggiunge il massimo apice nel 2004, quando, dopo aver girovagato tra Marsiglia, Milan e Bolton, si accasa al Çaykur Rizespor. Dopo due apparizioni turche, passa al Djurgården, in Svezia, con cui rescinde il contratto nel gennaio 2006. Decide allora di tornare in Italia, al Varese, ma solo per allenarsi. Da luglio è al Milan, che lo ha riaccolto per provare a restituirlo al calcio, anche se la sua sindrome sembra incurabile anche ai preparatissimi medici di Milan Lab.
In rossonero, però, non ha deluso solo lui: Winston Bogarde e Patrick Kluivert vi dicono qualcosa? I due olandesi non ebbero molta fortuna in maglia rossonera. Furono acquistati (dall’Ajax) e ceduti (al Barça) in coppia; il primo ripartì da Milanello alla volta di Barcellona un anno dopo esservi approdato, insoddisfatto dello scarso impiego (appena 3 partite per lui); il secondo, idem.
A Milanello possono fallire addirittura i brasiliani, che sembrano invece essere una delle colonie più felici del campionato. I due esempi più lampanti sono Rivaldo, approdato al Milan come campione e rilasciato come calciatore finito, salvo poi smentire il tutto nelle stagioni greche, e Ricardo Oliveira, arrivato a Milano per sostituire Sheva, dell’ucraino ha ereditato solamente il numero di maglia. Piccola curiosità: appartengono a lui due record calcistici legati al denaro: il primo è quello di giocatore che ha ricevuto la multa più alta (ben due volte di 1 milione di € dal Betis) e quello dei gol più cari: 3 gol con il Milan, che lo aveva pagato di 21 milioni di €, con una media di 7 milioni guadagnati a gol.
Ci sarebbero da raccontare tante altre storie, come quelle di Ipoua e Jardel, ad esempio, probabilmente i due attaccanti più scarsi degli ultimi 10 anni di serie A, oppure quelle dei bidoni di Juve, Roma e Lazio, ma, per ora, basta così.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat