sabato 29 dicembre 2007

Milan, i 60 milioni di Ronaldinho spendili per la difesa



Il tormentone-Ronaldinho va avanti da mesi, e negli ultimi tempi si è arrivati ad ipotizzare un'offerta di 60 milioni per il Gaucho. 60 milioni per affiancare Ronaldinho a Kaká, mandando in panchina due tra Seedorf, Ambrosini, Inzaghi e Gilardino. Perché? Non chiedetelo a me. Fossi in Berlusconi, rinforzerei la difesa, in età pensionabile, anziché l'attacco. E il più grande problema del Milan, per quanto riguarda la difesa, è Nelson Dida, che nel derby ha dato prova, l'ennesima, che quello visto a Manchester contro la Juve, nel 2003, era solo un bel sogno. La realtà è che Dida non può più giocare a questi livelli, e per sostituirlo ci vuole qualcuno all'altezza. Il mercato non offre molto, e io restringerei l'attenzione su due nomi: Frey, che una grande la merita dai tempi del Parma, e Marco Amelia, che non può restare tutta la vita a lottare per salvarsi con il modesto Livorno. Il primo, pezzo pregiato della Viola, costa circa 15 milioni di euro, e i Della Valle non lo tratterrebbero se il francese scegliesse il Milan. Il secondo, che Spinelli cederà per far cassa ora o a giugno, costa un milione in meno, ma è più giovane. Questo sarebbe un modo per investire 15 di quei 60 milioni, ne restano altri 45, che non sono bruscolini. 6 potrebbero venir dati all'Udinese per uno tra Zapata e Felipe, valutati più o meno alla stessa maniera. Io preferirei il primo, più giovane e fisicamente devastante. E, a proposito di fisici devastanti, a Manchester, sponda City, sta venendo su, e anche piuttosto bene Micah Richards, anni: 19. Almeno 10 milioni, forse anche 15, Shinawatra li vorrebbere, ma il 19enne già nel giro della nazionale inglese li vale tutti. Due nomi per la porta e tre per il centro della difesa, ma al Milan i problemi maggiori ci sono sulle fasce, dove, a parte Oddo e Jankulosvki, gli altri dovrebbero essere da tempo a godersi ciò che hannp guadagnato in tanti anni di onorata carriera. Un nome su tutti, quello di Daniel Alves, che lascerà il Siviglia in maniera trionfale, almeno così ha promesso, al termine della stagione. Costa 25 milioni. Il budget ormai è quasi esaurito, ma un altro acquisto economico - rispetto agli altri - lo si può ancora fare. Parlo di Juan Manuel Vargas, 24enne terzino destro peruviano del Catania, che costa circa 8 milioni. E se un pensierino l'anno scorso ce l'aveva fatto il Real, potrebbe farcelo anche il Milan.

lunedì 24 dicembre 2007



Buon Natale, lettori di CalcioItalia!

venerdì 21 dicembre 2007

Champions League: sorteggio ottavi

Conclusi i sorteggi degli ottavi di Champions League, e non si può certo dire che alle italiane sia andata bene. Il Milan, campione in carica, ha visto uscire dall’urna l’avversario più ostico che le potesse capitare: l’Arsenal dei giovani, secondo proprio perché nelle ultime due gare del girone ha mandato in campo ragazzi troppo giovani. L’Inter, che deve dimostrarsi carro armato anche fuori dai confini italici, si è ritrovato contro un Liverpool che può essere quello capace di perdere 2-1 ad Istanbul col Besiktas e 0-1 ad Anfield con il Marsiglia o la macchina da 16 gol nelle ultime tre, decisive, partite del girone. E, a giudicare da quanto fatto vedere negli ultimi anni, ovvero che il Liverpool è, assieme al Milan, la miglior squadra in europea sui 180 minuti, si tratterà della squadra cinica e concreta ammirata quando la posta in palio contava,. La Roma, certamente la più sfortunata, ha trovato un Real Madrid contro cui dovrà cercare di ripetere l’impresa della Virtus, squadra di basket capitolina vittoriosa ieri proprio contro i madrileni.
Analizziamo meglio gli incontri, però. Il Milan non ha bisogno di particolari dilungamenti sulle sue imprese nei match ad eliminazione diretta, basta aggiungere ai 18 trofei in bacheca che ne fanno la prima squadra al mondo il fatto che l’anno scorso furono proprio i rossoneri ad alzare la tanto ambita coppa con le orecchie, mimata proprio da Fabregas, avversario del Milan negli ottavi, in occasione di un gol nella fase a gironi. E quel gesto significa che l’Arsenal, in finale nel 2006, vuole quella coppa, e poco importa se contro si trova Slavia Praga o Milan, bisogna spazzarli via tutti e due, senza fare particolari distinzioni di forza. Certo è, però, che Gallas & co. Dovranno fare i conti con il Pallone d’oro e Fifa World Player 2007 Kaká.
L’Inter, dal canto suo, non può certo ritenersi fortunata. Il Liverpool è giunto in finale due volte negli ultimi tre anni, in mezzo l’eliminazione subita nel marzo 2006 dal Benfica, quando Simao e Miccoli sbancarono Anfield e si qualificarono per i quarti. Se l’Inter dovesse trovarsi di fronte quel Liverpool e non quella cinica macchina da gol ammirata nelle ultime tre giornate della fase a gironi, il passaggio ai quarti è quasi certo.
La Roma è però l’italiana con meno speranze di passare: il Real di Robinho, dalla Coppa America ad oggi probabilmente il miglior giocatore al mondo assieme a Fabregas e Ibrahimovic, vuole mettere in bacheca la decima Coppa dei Campioni/Champions League della propria storia, e per farlo deve passare sul cadavere della Roma. Roma che però a Madrid ha già vinto, era la fase a gironi, era il 2003, ma i 3 punti al Bernabeu arrivarono per mano, o per meglio dire “per piede”, di Francesco Totti, unico reduce, assieme a Panucci, di quella magica notte di ottobre.
Real escluso, alle altre iberiche è andata di lusso. Il Barça si è visto recapitare un cioccolatino biancoverde di nome Celtic, che, salvo miracoli in terra di Scozia, è destinato a tornare nei confini scozzesi fino al termine della stagione.
Neppure al Siviglia, deludente in campionato ma ottimo in Europa, è andata male. Il Fenerbahce non è poi un avversario tanto temibile, soprattutto fuori casa. Sul Bosforo invece la squadra di Zico ha inflitto tre KO, nell’ordine, ad Inter, PSV e CSKA Mosca.
Il Porto completa il trio di iberiche felici, visto che dall’urna è uscito lo Schalke, avversario alla portata dei lusitani, dimostratisi squadra solida nel girone eliminatorio e che non dovrebbe avere problemi contro il peggior attacco, a pari merito (?) con quello del Celtic tra le squadra qualificate agli ottavi. Appena 5 reti per gli uomini di Mirko Slomka, appena due nelle prime 5 giornate del girone eliminatorio.
Completano gli ottavi di finale Olympiacos-Chelsea e Lione-Manchester United. Se ne primo caso gli uomini di Grant non dovrebbero aver problemi ad eliminare la sopresa della fase a gironi, tra Manchester United e Lione sarà sfida vera, perché se da un lato Aulas vuole come minimo i quarti dopo la deludente eliminazione agli ottavi contro la Roma lo scorso anno, gli inglesi si stanno ancora rodendo le mani per l’occasione sprecata l’anno scorso, quando si fecero rimontare dal Milan il 3-2 maturato ad Old Trafford. La parola ai piedi di Benzema e Cristiano Ronaldo qui, di tutti gli altri campioni che faranno la loro comparsa sul palcoscenico, calcisticamente parlando, più importante in Europa, per le altre partite.
Antonio Giusto



Fonte: SportBeat

lunedì 17 dicembre 2007

Gollas importanti


Gallas festeggiato da Sagna ed Eboué. PA


Un colpo di testa per fermare il Chelsea e portare l’Arsenal di nuovo in vetta. Opera di Adebayor? No, di William Gallas, tra l’altro ex del match. Sì, perché quando al 45’ del primo tempo Cesc Fabregas ha calciato un corner dalla sinistra, il più lesto ad approfittare dell’errore di Cech è stato lui, difensore con numero di maglia e vizio del gol da attaccante. Gallas, infatti, sulla maglia porta un 10 praticamente mai visto sulle spalle di un difensore. L’idea venne a Wenger quando Gallas, appena arrivato ai Gunners, trovò il suo classico 3 occupato e il tecnico francese pensò bene di affidargli il 10 appena lasciato libero da Dennis Bergkamp per non responsabilizzare eccessivamente un attaccante e far risaltare un po’ Gallas, il cui sogno da piccolo doveva però essere quello di vestire un altro numero, magari quello di Jean Tigana, a cui gli amici lo paragonavano da piccolo, quando Gallas, nativo di Asnières-sur-Seine ma trasferitosi quasi subito nella vicina Villeneuve-la-Garenne, passava le giornate a giocare con un pallone, poco importava se fosse da calcio o da baseball. Il piccolo William, però, era troppo preso dallo sport e questo gli costò qualche problema con la scuola, dove fu rimandato in sesta (la scuola in Francia è strutturata diversamente) e dovette affrontare le ire di suo papà, originario di Sainte-Anne, Guadalupa. Detto che Gallas ama il calcio, non si è ancora accennato al fatto che da piccolo Gallas fosse calcisticamente inferiore a suo fratello minore Thierry, su cui si prenderà poi una gustosa rivincita. E Gallas si prende una rivincita anche nei confronti del suo professore di matematica che, quando gli annuncia che da grande farà il calciatore, replica «Calciatore? Non è un lavoro!». William però non vuol sentire ragioni e quando la sua famiglia di vede costretta a fare ritorno in Guadalupa per motivi economici, lui chiede e ottiene da suo padre di poter restare in Francia, all’institut national du football de Clairefontaine, centro di formazione calcistica da cui sono usciti, oltre a lui, anche nomi del calibro di Nicolas Anelka e Thierry Henry, assieme al quale cresce calcisticamente fino ai 17 anni, quando, assieme a sei compagni, passa nel centro di formazione del Caen, a quel tempo in prima divisione. Proprio al Caen conosce Etienne Mendy, ancora oggi il suo procuratore. A Caen gallas rimane due stagione, il tempo di mettere assieme 34 presenze e di farsi notare dal Marsiglia in una stagione sfortunata per il team della Normandia, che terminerà la stagione con la retrocessione in seconda divisione. Gallas però, come già detto, viene notato dal Marsiglia, che però non riesce immediatamente a tesserarlo per via di alcune grane contrattuali, che spingono i dirigenti dell’OM anche a proporgli di tornare a Caen, ma Gallas rifiuta e continua, determinato, ad inseguire il suo sogno: diventare un campione. A fermarlo non ci riesce neppure la frattura dell’alluce che gli consente di giocare appena 3 partite nella sua prima stagione marsigliese. L’anno successivo però il nome del francese finisce sui taccuini di molti grandi club grazie alle ottime prestazioni offerte in Francia ed in Europa, dove l’OM raggiunge la finale di Coppa Uefa poi persa contro il Parma, al fianco di Laurent Blanc. Alle molteplici offerte, Gallas risponde però di no, e decide di restare al Marsiglia, e fa bene: il 19 ottobre segna al Manchester United il gol della vittoria del Marsiglia, ormai è lui l’idolo indiscusso del Velodrome. La partita col Manchester e quella con il Chelsea convincono però Claudio Ranieri che il giovanotto vale la maglia blu del Chelsea, oltre quella della Francia, dove esordirà poco dopo. Al Chelsea Gallas approda per 6 milioni di sterline, e ci resta per 4 stagioni. La rottura arriva nell’estate del 2006, quando Gallas, stufo degli innumerevoli sostituti acquistati per prendere il suo posto, esagera e non partecipa alla tournée americana del Chelsea, e al suo ritorno vede recapitata la maglia con il numero 13 al neo arrivato Michael Ballack. Capisce allora che è tempo di andare via. Lui predilige l’Italia, e Milan e Juventus si fanno sotto, ma alla fine va all’Arsenal nell’affare-Cole. Con i Gunners debutta il 9 settembre 2006 contro il Middlesbrough e due settimane dopo trova la prima marcatura, allo Sheffield United. Il 9 agosto di un anno dopo si vede addirittura promosso capitano, e indossa la fascia per la prima volta il 12, contro il Fulham. Fascia mai più tolta, e chissà che non possa sollevare il titolo, già vinto con la maglia del Chelsea, proprio con la fascia sul braccio.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 3 dicembre 2007

Il Pastore d'oro

Essere scartati da una sponda calcistica di Milano e diventare campioni, bandiere, leggende, sull’altra. È una storia comune a molti: Facchetti, Bergomi e Mea zza, tanto per fare qualche nome, provarono con il Milan salvo poi diventare vere e proprie leggende nerazzurre. Lo stesso accadde a Rivera – primo pallone d’oro milanista – che, dopo essere stato opzionato dall’Inter in seguito ad una segnalazione di Benito Lorenzi, per breve tempo suo compagno di squadra all’Alessandria, fu poi dimenticato dai dirigenti nerazzurri e ad approfittarne furono i milanisti, che vestirono in fretta e furia il Golden Boy di rossonero. Di Rivera abbiamo detto che fu il primo pallone d’oro milanista, e il premio assegnato dalla rivista francese France Football è stato assegnato ad un milanista, che come lui fu “dimenticato” dall’Inter, proprio in settimana. Eh sì, perché Ricardo Izecson dos Santos Leite, per tutti (a partire dal suo fratellino Digão che da piccolo storpiava “Ricardo” in “Kaká”) Kaká, fu scartato dall’Inter prima di diventare il campione che ora conosciamo. Ai nerazzurri fu segnalato dal buon Carletto Mazzone, a cui era stata fatta visionare una cassetta con le giocate dell’allora talentino del San Paolo. «Troppo forte per noi», il giudizio dell’allenatore romano, che lo segnalò all’Inter. In quell’infausto periodo nella Milano nerazzurra era usuale prendere i brocchi e rifiutare i campioni, e così Kaká fu lasciato al San Paolo.
San Paolo, intesa come città, dov’era giunto dopo essere passato per Brasilia, città natia, e Cuiaba. Tutto questo fatto con l’appoggio dei genitori: mamma Simone, insegnante, e papà Bosco, ingegnere civile, che ammettono «Quando Kaká, all’età di 15 anni, ci ha detto di voler essere calciatore professionista lo abbiamo subito appoggiato. Oggi è quello che è, e ne siamo orgogliosi». E i genitori fanno bene ad esserne orgogliosi: oltre che un grandissimo campione, Ricky è un campionissimo anche nella vita. Il 30 novembre 2004 è diventato il più giovane ambasciatore contro la fame del PAM, il programma alimentare mondiale dell'ONU. Fame che da piccolo, però, non ha mai dovuto affrontare. Detto del lavoro dei genitori che gli consentiva di vivere nel Morumbi, quartiere residenziale di San Paolo, a differenza di molti suoi compagni di squadra che al termine delle partite del San Paolo andavano a festeggiare a casa sua con le ciambelle di mamma Simone prima di tornare nelle squallide favelas in cui abitavano. La non-provenienza dalla favelas è stata per Kaká un problema, almeno fino a qualche anno fa. La critica lo accusava di non avere la fame, la rabbia, la volontà di chi era cresciuto pregando che al ritorno a casa dal campetto ci fosse qualcosa in tavola, spesso usando come “arma” un episodio risalente al Brasileirão 2002: nei quarti contro l’Atletico Paranaense Kaká uscì in lacrime dopo 39 minuti a causa del rude trattamento riservatogli da Cocito, difensore del Furacão. Un anno prima però il marito di Caroline, sposata il 23 dicembre 2005 nella chiesa evangelica Renascer em Cristo dopo tre anni di fidanzamento e da poco in attesa dell’erede del pallone d’oro, aveva esordito con la maglia del San Paolo nella finale del torneo di Rio-San Paolo segnando 2 gol in 2 minuti e ammaliando la critica. Non si sbalordì affatto il tecnico Oswaldo che, dopo aver ribadito che Kaká poteva diventare un grandissimo calciatore, aveva ricordato a tutti che il nativo di Brasilia non era neppure al top: veniva infatti dal tuffo in piscina – vuota – che gli era costata la frattura della sesta vertebra. Il rischio della paralisi era stato però scongiurato, come lui assicura, da Dio, al quale è devotissimo. Sulla linguetta copri-lacci di suoi scarpini c’è scritto “Dio è fedele”, ed ha un braccialetto di metallo con la scritta “Jesus” e un nastrino di stoffa con le lettere “OQJF” (“O que Jesus faria?”, cioè “Cosa farebbe Gesù al mio posto?”). La sua segreteria telefonica dice “Sono Kaká. Al momento non posso rispondere. Grazie. Dio ti benedica. Ciao”. Proprio questa sua grande religiosità lo ha spinto a dichiarare «Voglio diventare un pastore evangelico per portare nel mondo la parola di Dio» ai microfoni dell’emittente brasiliana Globo TV. Se così dovesse essere, be’, buona fortuna al primo pastore evangelico con un pallone d’oro sul comodino, dove ha dichiarato che lo metterà.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 19 novembre 2007

Il mio miglior colpo di testa


Christian Panucci segna il gol dell'1-2

Stavolta i protagonisti non sono Carlo Verdone e Silvio Muccino ma Christian Panucci e il Puma v.106 ball da lui scaraventato alle spalle di Gordon sabato sera. Questo però non è il primo colpo di testa di Panucci, ma sicuramente il migliore. In precedenza, infatti, un rifiuto ad entrare in un Roma-Reggina in cui Capello lo aveva tenuto inizialmente in panchina gli costo centodiecimila euro. Una bazzecola, in confronto ad un altro rifiuto di entrare, stavolta ai tempi dell’Inter: Marcello Lippi lo mandò a scaldarsi, poi gli chiese se era pronto ad entrare ed il terzino destro di Savona non lo degnò di risposta. Da allora i rapporti con Lippi peggiorarono sempre più, costandogli il posto in nazionale nell’era da C.T. dell’allenatore viareggino e quindi il mondiale, vinto, del 2006. E proprio dopo il mondiale Panucci era convinto che la nazionale non l’avrebbe mai più neppure sfiorata. A fargli cambiare idea è stato però Donadoni, suo amico e compagno di squadra ai tempi del Milan, che lo ha riconvocato in azzurro tre anni e 3 mesi dopo l’ultima volta in nazionale del terzino destro della Roma, datata 22 giugno 2006, il giorno di Italia-Bulgaria 2-1, ma anche il giorno della partita-farsa Svezia-Danimarca 2-2, che costò agli azzurri l’eliminazione dall’Europeo e a Trapattoni l’esonero. Il Trap andò ad allenare il Benefica, Panucci disse addio alla nazionale visto l’approdo di Lippi sulla panchina azzurra. Il 12 settembre di quest’anno, la svolta: l’Italia gioca una partita decisiva in Ucraina e Donadoni lo richiama in azzurro visto il bisogno di uomini d’esperienza per una partita tanto delicata. Christian risponde presente, e dimostra di valere ancora la nazionale anche nella sfida con la Georgia. Contro la Scozia, dopo aver staccato il pass per Euro 2008, ha esultato soprattutto per aver aiutato un amico, di cui abbiamo già parlato: Roberto Donadoni. I due si sono conosciuti ai tempi del Milan. Milan dove Panucci approdò nel 1993, ad appena 20 anni. In rossonero al primo anno vinse lo Scudetto e la Coppa dei Campioni a cui a breve si aggiunsero un titolo di campione d’Europa under 21 – a cui ne seguirà un altro due anni dopo -, una Supercoppa Italiana ed una Europea. Panucci sembra lanciato verso una carriera di primo piano, e così è, ma non al Milan: un litigio con Sacchi gli fa perdere il posto da titolare, e nel gennaio ’96 fa le valigie ed approda al Real, è la prima meringa italiana. Con i galacticos Panucci vince uno scudetto alla prima stagione e una Champions League alla seconda. Lui però vuole tornare in Italia, e, per farlo, sceglie l’Inter, il posto migliore in cui approdare se sei stato cacciato dal Milan. Ad Appiano Gentile Panucci si allena però per un solo anno, visto che un altro colpo di testa, il suo peggiore, lo porta a litigare con Marcello Lippi, che se ne sbarazza. Tenta allora l’esperienza inglese, al Chelsea di Zola, dove resta però appena mezza stagione, il tempo di giocare 8 partite senza metterla mai dentro e passa al Monaco, dove invece mette il pallone in porta 3 volte in 9 partite. Si guadagna la riconferma nel principato, ma dopo 5 partite estive di campionato, nel 2001 se lo aggiudica la Roma, che aveva già provato a strapparlo all’Inter senza successo. A Roma Panucci trova il suo habitat naturale. In giallorosso approda l’anno dopo lo scudetto, nel 2001/02. Con la Roma è a quota 183 partite, condite da 12 gol. Due di questi sono arrivati il 9 maggio 2007, contro l’Inter nella finale di Coppa Italia, certamente il picco più alto da lui raggiunto in giallorosso. Il 17 maggio dopo la partita di ritorno, ha alzato al cielo la Coppa Italia. E chissà che non possa alzare al cielo un altro trofeo al cielo, il 29 giugno 2008.
Antonio Giusto


Fonte: Sportbeat

martedì 13 novembre 2007

Chrisantus all'Amburgo


Vi ricordate di Macauley Chrisantus, il 17enne nigeriano capocannoniere dei mondiali under 17 che mi aveva stragato quest'estate? Spero di sì, altrimenti vi rimando a questo post agostano.
Comunque Macauley ha appena firmato un contratto con l'Amburgo (qui il comunicato ufficiale sul sito della società anseatica). Maca, buona fortuna!

Mama(dou) che partita!



Battere in Lione in Francia è diffide, ancor più difficile se si gioca allo Gerland, e la difficoltà tocca picchi ancor più alti se si è penultimi in classifica. Vincere in queste condizioni, però, si può, e a dimostarlo ci ha pensato il Marsiglia. L’OM ha battuto il Lione a casa propria, lasciando il campionato aperto visto che il Nancy è appena 3 punti dietro gli esacampioni di Francia e deve recuperare una partita. Il campionato quasi certamente finirà per la settima volta consecutiva nelle mani del Lione, ma gli appassionati di calcio francese dovranno ringraziare Mamadou Niang, autore della doppietta decisiva e soprattutto Carlos Lopez. Perché Carlos Lopez? Perché fu lui a convincere un giovane Mama Niang a tornare a giocare a calcio dopo che il nativo di Matam, comune di 20000 anime situato nel nord-est del Senegal, aveva deciso di lasciare il calcio ad appena 18 anni. Dopo essere stato convinto da Lopez a tornare al calcio, fu il suo stesso ex allenatore al centro di formazione del Le Havre a scegliere la destinazione: Troyes, allenatore Alain Perrain, che ieri ha fatto soffrire. La prima stagione a Troyes la trascorre negli amatori, riuscendo a gudagnarsi la fiducia proprio di Perrain, che l’anno successivo lo promuove in prima squadra. L’annata non è delle più fortunate, e in appena 10 partite, tutte giocate partendo dalla panchina, mette il pallone in rete in appena due occasioni. L’anno successivo parte ancora come riserva, ma durante la stagione viene finalmente promosso titolare. I gol però continuano ad arrivare con il contagocce, ma Mama non demorde, e nella stagione successiva continua ad impegnarsi, ma gli appena 3 gol segnati in 20 partite di Ligue 1 lo convincono ad accettare il declassamento in Ligue 2, al Metz di Jean Fernandez. In Lorena forma una coppia da sogno con Emmanuel Adebayor, e i 5 gol in 12 partite gli valgono la chiamata dello Strasburgo, in Ligue 1. In Alsazia trova il serbo Ljuboja, che fa la sua fortuna: in coppia con lui segna infatti ben 8 gol, che gli valgono la definitiva entrata nel giro della nazionale senegalese. A gennaio però Ljuboja passa al PSG, e Niang ne risente, segnando appena un altro gol e iniziando a ritrovarsi in panchina sempre più spesso. È però l’arrivo di Pagis a fare la sua fortuna. In coppia con l’attuale attaccante del Rennes Niang segna 15 gol, che con i 13 messi a segno da “Pagistrale” fanno 28. Per 7 milioni lo prende il Marsiglia, dove ritrova Jean Fernandez, il tecnico con cui esplose al Metz. Nelle prime due stagioni con l’OM va in doppia cifra, sfiorando la vittoria in Coppa di Francia nel 2006 e nel 2007, anno in cui arriva secondo in campionato alle spalle del Lione e garantendosi la partecipazione alla Champions League, dove quest’anno è già andato a segno due volte, e chissà che grazie ai gol di Mama non si avveri la predizione del telecronista di Lione-Marsiglia di ieri sera, ovvero che una delle due squadra raggiunga la finale della coppa più ambita.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 5 novembre 2007

Il primo mattone della salvezza


Christian Riganò esulta. Marca

Una casa si costruisce mattone su mattone, e Christian Riganò lo sa bene, visto che prima di sfondare nel calcio faceva il muratore. Proprio Riganò ha avuto l’onore di posizionare il primo mattone della salvezza del Levante tutto italiano di De Biasi. Per farlo gli sono bastati trentaquattro minuti nei quali ha segnato i 3 gol (a 0) all’Almeria che hanno consentito al suo Levante di portare a casa i suoi primi 3 punti stagionali, dopo che ne aveva conquistato solo 1, contro il Murcia alla seconda giornata, nelle precedenti 10 partite. Quell’unico punto in 10 partite aveva però portato i tifosi e non solo loro a contestare la squadra. Il primo a pagare è stato ovviamente il tecnico Abel Resino, sostituito dall’ex granata Gianni De Biasi, il quinto italiano del Levante. Anche Riganò, però, era stato oggetto della critica dei tifosi levantini, che gli rimproveravano un eccessivo uso di sigarette, ma lui, dopo aver prontamente ribadito «non reputo un problema il fatto che un giocatore si conceda una o due sigarette dopo i pasti. Capirei le critiche se uno fumasse un pacchetto al giorno, ma non è il mio caso. Non credo - ha concluso l’ex bomber messinese - che il Levante sia ultimo in classifica per questo». Il fumo – vizio condiviso con molti altri calciatori, tre nomi su tutti: Platini (il cui vizio non faceva piacere all’avvocato al quale replicava che l’importante era che non fumasse Benetti, mediano tutto polmoni della Juve nella seconda metà degli Anni 70), Zidane e Buffon, quindi, per il nostro non è un problema. Problemi che ha però creato a Cobeño, numero 1 dell’Almeria.
Problemi che Riganò, agli esordi, era costretto a sventare: ai tempi del Lipari, infatti, Riganò giocava in difesa. Fu spostato in attacco in occasione di un match per il quale il Lipari non aveva attaccanti disponibili, e la stazza del bomber oliano convinse il suo allenatore a provarlo come prima punta. L’esperimento riuscì, e da allora Riganò è un attaccante, e che attaccante! Dopo aver trascorso quattro anni al Lipari, corona il suo sogno giocando nel Messina, ma solo per una stagione, visto che i soli 3 gol in 29 partite di campionato non gli valgono la riconferma. Lui non si perde d’animo e, dopo due anni all’Igea Virtus, approda al Taranto, in C2. Con 14 gol contribuisce alla promozione in C1 degli Ionici, e con 27 reti in 33 partite nella stagione successiva si fa notare dai dirigenti della Fiorentina, che cercano giocatori per ripartire dalla C2 con la Florentia Viola. Lui accetta di buon grado, e dopo 30 gol in 32 partite nella prima stagione, trova quello che aveva perso a Taranto per colpa del Catania in un’accessissima finale play off: la serie B. Proprio nella serie cadetta si fa alfiere del detto «chi sa segnare segna dovunque, dalla C2 alla A», mettendo a segno 23 reti, che valgono alla Fiorentina l’accesso ai play off dove i viola battono il Perugina e tornano in A dopo due anni di serie minori. Con la Fiorentina gioca anche la propria prima stagione di serie A, in cui va però a segno appena 4 volte in 18 partite a causa di un infortunio patito alla prima giornata. Lui non si scoraggia, e l’anno successivo va a Empoli, visto che a Firenze è chiuso dal neoacquisto Toni. Con gli azzurri è titolare, ma i gol sono appena 5 in 33 partite, e la Viola lo cede al Messina, dove torna a distanza di nove anni. Con i peloritani dimostra di essere un attaccante vero, di razza, e sfruttando il suo fisico, il suo fiuto del gol sotto porta e soprattutto una grande rabbia, segna 19 gol. In appena 27 partite perché un infortunio lo ferma per due mesi. La sua grande stagione non è però sufficiente per la salvezza dei giallorossi, che decidono di cederlo visto che il suo ingaggio pare eccessivo per la serie B. A farsi avanti sono diverse squadre, su tutti il Livorno, che però se lo fa soffiare all’ultimo minuto dal Levante, dove va ad infoltire la colonia azzurra. Il primo gol arriva alla quarta giornata contro l’Athletic Bilbao con un colpo di testa su cross di Pedro Leon. Gol però inutile, a differenza di questa tripletta, dopo la quale i tifosi, per festeggiare, una sigaretta potrebbero anche offrirgliela.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

venerdì 2 novembre 2007

Vampeta e i suoi fratelli



Vampeta, il bidone per eccellenza. Da lui, ovviamente, è obbligatorio partire per questo affascinante tour tra i più grandi bidoni del calcio italiano dell’ultimo decennio.
Vampeta (“piccolo vampiro”), nome d’arte di Marcos André Batista Santos arriva in Italia nel 2000, su consiglio dell’ex compagno di squadra al PSV Ronaldo. Ad aggiudicarselo è Massimo Moratti, in quegli anni ottimo scopritore di bidoni, che rimpingua con 15 milioni di dollari le classe del Corinthians. In Italia Vampeta si presenta benissimo, andando in gol (anche se con l’evidente complicità di Peruzzi) all’esordio in Supercoppa Italiana (l’Inter verrà sconfitta 4-3) contro la Lazio. La strada per quello che all’epoca (e forse tuttora) era il giocatore più amato dai gay, diventa in salita: tanta tribuna per lui, con sporadiche apparizioni in campo tra Coppa Uefa e Coppa Italia, dove gioca, il 29 novembre 2000, la sua ultima partita nerazzurra in un disastroso 6-1 subito dal Parma. Per lui l’unica soluzione è espatriare, e la società, pur di liberarsene, accetta in cambio Stephane Dalmat dal Paris Saint Germain. Dalmat segue le sue orme, giocando un po’ di più, l’altro giocatore diventato nerazzurro per merito suo, Adriano, pare sulla buona strada.
Altro interista (ce ne sono a iosa, ma mi limiterò ai casi più eclatanti di “bidonismo nerazzurro”) presente su questo immaginario podio dei bidoni è senza dubbio Vratislav Gresko, unico bidone in grado di far perdere, pur se con la collaborazione di un ceco ex Manchester United e di un ex ferroviere, addirittura uno scudetto. Il biondo slovacco, voluto all’Inter da Marco Tardelli, che ne era rimasto stregato quando allenava l’under 21 azzurra in un match contro la Slovacchia, compie il suo capolavoro il 5 maggio 2002. Contro una Lazio in lizza per un piazzamento Uefa, Vratislav decide che il tricolore sulle maglie bianconere è più bello che su quelle nerazzurre, e si esalta. L’Inter va in vantaggio due volte, prima con Vieri e poi con Di Biagio, ma i clamorosi svarioni di Gresko consentono per due volte a Poborsky di riportare i suoi in parità. L’Inter, psicologicamente a pezzi, crolla nella ripresa e i gol di Simeone, indimenticato ex, e di Simone Inzaghi, fissano il risultato sul 4-2. Lo scudetto è della Juventus, vittoriosa 2-0 ad Udine; l’Inter è addirittura terza, costretta ai preliminari di Champions; io e Ronaldo siamo in lacrime; Gresko? Lui si rifugia a Bratislava e si giustifica dicendo di non essere l’unico colpevole di ciò che è accaduto. Viene poi mandato il prestito al Parma, poi espatria: Blackburn, Norimberga e adesso Bayer Leverkusen, la stessa squadra da cui l’Inter l’aveva prelevato nel 2000 per 10 miliardi e mezzo di lire.
Terza piazza del podio per un nome tristemente noto ai tifosi laziali: Gaizka Mendieta. Il biondo centrocampista cresciuto nel Castellón approdò alla Lazio nel 2001, per la stratosferica cifra di 93 miliardi di lire. In biancazzurro bastarono 19 presenze per ricevere il benservito, arrivato al termine della stagione. Un anno al Barça e poi il passaggio al Middlesbrough, dove tuttora si guadagna la pagnotta.
Altro ex laziale meritevole di far parte del tour è senza dubbio Iván de la Peña. “El Pelat” arrivò alla Lazio dal Barcellona per la prima volta nel 1998. 14 partite, 0 gol e biglietto aereo per Marsiglia. Una stagione con l’OM, poi il ritorno al Barça. A Cagnotti non resta che riportarlo in Italia per dargli una seconda chance, ma lui non la sfrutta. Il definitivo ritorno in patria, a Barcellona, stavolta sponda Espanyol, avviene nel 2002.
Dopo questo breve excursus tra i laziali, torniamo ai nerazzurri. Come non parlare del miglior giocatore macedone del secolo, il mitico Darko Pancev? “Il Cobra”, 84 gol in 6 anni con il Vardar Skopje, 84 in 4 con la Stella Rossa, approdò all’Inter nel 1992. 12 partite, 1 gol e un biglietto andata e ritorno per Lipsia. Dopo una stagione in Germania, condita da 2 gol in 10 partite, il ritorno in nerazzurro. Stavolta i gol sono ben 2, in 7 apparizioni. Al “Ramarro” (così era orma soprannominato l’ex cobra) non restò che chiudere la carriera in Svizzera, al Sion, dopo una breve parentesi tedesca con il Fortuna Düsseldorf.
Ultimo nerazzurro europeo – poi passeremo ai sudamericani -, Jeremie Brechet, indimenticato bidonee della fascia sinistra della Beneamata. Brechet, cresciuto nel Lione, si veste di nerazzurro nel 2003/04 per appena 15 – terrificanti - volte, sufficienti perché Zaccheroni gli dica che con lui in panchina non avrebbe mai giocato. Brechet si vede costretto a lasciare Appiano Gentile per la gioia di ogni nerazzurro e passa alla Real Sociedad. Due anni in Spagna, poi il passaggio al Sochaux, di cui è attualmente capitano.
Adesso tocca ai nerazzurri “made in South America”. Partiamo dal primo acquisto dell’era Moratti: Sebastian “Avioncito” (così detto per la sua esultanza dopo una rete, mai vista in Italia) Rambert. Arriva in coppia con Zanetti; l’attuale capitano dura da 13 anni, lui va via dopo nemmeno tre mesi in cui colleziona una sola apparizione, in Coppa Italia, contro la Fiorenzuola. Una volta lasciata l’Inter, si accasa al Saragozza, 20 presenze, 5 gol e ritorno in patria. Dopo diverse stagioni spese, senza brillare, tra Boca, River e Indipendiente, torna in Europa per una fugace apparizione con l’Iraklis di Salonicco, salvo poi tornare in Argentina, all’Arsenal di Sarandí, per chiudere la carriera nel 2003.
Passiamo a quattro giocatori con uno stesso comune denominatore: Paco Casal. Partiamo dal più famoso, il “Chino” Recoba, che non mi sento di definire “bidone”. Nella categoria rientrano però pienamente gli altri tre: Antonio Pacheco, Gonzalo Sorondo e Fabian Carini. Il primo viene portato all’Inter proprio da Casal, che pretende un suo inserimento nell’affare Recoba. In nerazzurro Pacheco gioca una partita in due anni, venendo poi sbolognato all’Espanyol. Sorondo, temuto (dagli interisti) difensore uruguagio, approda all’Inter nel 2001, dopo che gli osservatori nerazzurri se ne erano innamorati in un Uruguay-Brasile 1-0 del primo luglio 2001. Con l’Inter Sorondo colleziona insuccessi, e viene sbolognato a destra e a manca. Finalmente qualcuno decide di riscattarlo, questo qualcuno è il Charlton, che se ne libera poco dopo rispedendolo in Uruguay al Defensor. Adesso è all’Inter, di Porto Alegre, per fortuna. Il quarto “casaliano” è Fabian Carini, che la Juventus preleva dal Danubio nel 2000, salvo poi mandarlo in prestito allo Standard di Liegi due anni dopo. Dopo lo Standard, con cui trova anche il modo di segnare una rete, giunge all’Inter nell’affare-Cannavaro. 4 partite in nerazzurro e prestito a Cagliari, dove, dopo 9 deludenti partite, viene sostituito da Chimenti. Adesso è al Real Murcia, in Spagna.
Carrellata di nerazzurri finita? No, mancano ancora due brasiliani. Il primo è Caio, arrivato all’Inter nel ’95 dopo uno splendido mondiale under 20 in cui viene premiato come miglior giocatore. In nerazzurro però non ottiene gli stessi risultati della Bocconi, dove dimostra di valere più sui libri che sui campi da gioco. L’Inter prova anche a mandarlo al Napoli, ma fallisce anche lì, e l’unica cosa da fare è rispedirlo in Brasile. Dopo aver girovagato per l’immenso paese sudamericano, lascia il calcio nel 2005 per dedicarsi alla carriera di modello.
Secondo brasiliano e ultimo nerazzurro (mi rifiuto di inserire Bergkamp in questa lista di bidoni) è Gilberto. Gilberto da Silva Melo, dopo un discreto passato come giocatore di calcio a 5, approda all’Inter nel ’99, proveniente dal Cruzeiro. In nerazzurro dura tre partite, due di campionato e una di Coppa Italia, poi torna in Brasile, al Vasco da Gama. Oggi è titolare irremovibile dell’Herta Berlino ed è nel giro della nazionale brasiliana, con cui ha giocato da titolare gli scorsi mondiali.
I bidoni a Milano, però, non sono solo nerazzurri, anche in rossonero abbondano.
Su tutti Ibrahim Ba: cresciuto calcisticamente nel Le Havre, passa al Bordeaux, dove lo notano gli osservatori milanisti, che lo vestono di rossonero. Nel 97/98 è addirittura titolare, ruolo che perde nel successivo anno, in cui i rossoneri diventano campioni d’Italia. Poi viene mandato in prestito al Perugia, e lì iniziano i primi sintomi della malattia comune a tutti i giocatori nominati in questo articolo: il bidonismo. Malattia che raggiunge il massimo apice nel 2004, quando, dopo aver girovagato tra Marsiglia, Milan e Bolton, si accasa al Çaykur Rizespor. Dopo due apparizioni turche, passa al Djurgården, in Svezia, con cui rescinde il contratto nel gennaio 2006. Decide allora di tornare in Italia, al Varese, ma solo per allenarsi. Da luglio è al Milan, che lo ha riaccolto per provare a restituirlo al calcio, anche se la sua sindrome sembra incurabile anche ai preparatissimi medici di Milan Lab.
In rossonero, però, non ha deluso solo lui: Winston Bogarde e Patrick Kluivert vi dicono qualcosa? I due olandesi non ebbero molta fortuna in maglia rossonera. Furono acquistati (dall’Ajax) e ceduti (al Barça) in coppia; il primo ripartì da Milanello alla volta di Barcellona un anno dopo esservi approdato, insoddisfatto dello scarso impiego (appena 3 partite per lui); il secondo, idem.
A Milanello possono fallire addirittura i brasiliani, che sembrano invece essere una delle colonie più felici del campionato. I due esempi più lampanti sono Rivaldo, approdato al Milan come campione e rilasciato come calciatore finito, salvo poi smentire il tutto nelle stagioni greche, e Ricardo Oliveira, arrivato a Milano per sostituire Sheva, dell’ucraino ha ereditato solamente il numero di maglia. Piccola curiosità: appartengono a lui due record calcistici legati al denaro: il primo è quello di giocatore che ha ricevuto la multa più alta (ben due volte di 1 milione di € dal Betis) e quello dei gol più cari: 3 gol con il Milan, che lo aveva pagato di 21 milioni di €, con una media di 7 milioni guadagnati a gol.
Ci sarebbero da raccontare tante altre storie, come quelle di Ipoua e Jardel, ad esempio, probabilmente i due attaccanti più scarsi degli ultimi 10 anni di serie A, oppure quelle dei bidoni di Juve, Roma e Lazio, ma, per ora, basta così.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

mercoledì 24 ottobre 2007

CSKA Mosca-Inter 1-2



L’Inter ora è squadra vera anche in Europa. Questa la certezza scaturita dal match contro un CSKA Mosca sempre più deludente.
Il CSKA, che ha ormai detto addio alle residue speranze di vincere il campionato russo (dove a 3 giornate dal termine è a -12 dalla coppia di testa formata da Spartak e Zenit) è obbligato a concentrarsi sull’Europa, dove ha già dimostrato di essere in grado di farsi valere, come dimostra la Coppa Uefa 2005. Gli uomini di Gazzaev si trovano però di fronte un’Inter che è ormai squadra vera, come dimostra il successo ottenuto a Reggio. Ai nerazzurri non la si fa più e, anche quando giocano male, riescono ad avere la meglio, grazie ad un pantano utilizzato come campo o ad un portiere “bidone” - espressione che cerco di non usare mai nei confronti dei professionisti, ma Mandrykin, specialmente dopo le due papere europee, se la merita tutta – poco importa.
Il CSKA parte forte, e un’Inter che perde per l’ennesima volta Vieira dopo appena un quarto d’ora è costretta a stare a guardare. I nerazzurri provano a reagire, però il CSKA è sempre in agguato grazie ad un attacco temibile anche senza Vagner Love, in cui Jô parte largo per poi accentrarsi e Daniel Carvalho, al rientro dopo un lungo infortunio, spazia sul fronte offensivo sempre pronto a piazzare la giocata vincente, ieri però mai arrivata. A far paura a Julio Cesar ci pensa anche un ottimo Krasic, che parte dalla fascia e si accentra, rendendosi pericoloso in più di un’occasione. Nell’Inter, senza mezza squadra a causa delle squalifiche, torna Cordoba, che pare in ripresa dopo alcune prove che definire deludenti è un eufemismo, e si vede quando Jô riceve palla al limite dell’area e, dopo aver vinto due rimpalli con “Café Colombia” fa partire un pallonetto che batte Julio Cesar, apparso fuori posizione. L’Inter prova a reagire, ma le uniche cose da annotare sul taccuino sono gli errori degli avanti del CSKA e gli infortuni dei moscoviti Dudu, sostituito da Eduardo, e Aleksei Berezutskiy, “azzoppato” da Figo, che macchia così il suo centesimo gettone in Champions League.
Nella ripresa l’Inter capisce che un’altra sconfitta in Europa è inaccettabile, e parte forte. I nerazzurri vengono premiati al 52’, quando Crespo riceve palla dal biondo Krasić in un’azione simile a quella che ha generato il gol di Trezeguet nel derby, e insacca. 1-1 e palla al centro, per pochi secondi, però, perché l’Inter si tuffa nuovamente in avanti senza però trovare la rete per via degli errori di uno Stankovic, giustificato perché non al meglio, e di un Ibra tornato quello pre-PSV. A risolvere la contesa ci pensa Samuel, con il quale presumibilmente farà coppia Materazzi al rientro, perché metterlo in panca, ora come ora, è impossibile. The Wall segna il 2-1 all’80’, ma il merito (o la colpa, se non siete nerazzurri) è soprattutto del sostituto di Akinfeev, Mandrykin, che dopo la schifezza (per dirla alla Caressa) combinata contro il Fenerbahçe toglie altri punti ai suoi con la complicità di una zolla probabilmente simpatizzante della Lokomotiv.
L’Inter torna a Milano (anche se a breve volerà a Palermo) con i 3 punti e la certezza di non essere più pazza, il CSKA resta a Mosca a sperare di centrare almeno la qualificazione in Uefa per sperare di ripetere l’impresa del 2005.

TABELLINO
CSKA Mosca (3-4-1-2): Mandrykin 4; V. Berezutskiy 6, Ignashevich 6, A. Berezutskiy 6,5 (dal 45' A. Grigorjev 6); Krasic 7, Aldonin 6, Rahimic 5,5, Zhirkov 6; Dudu Cearense 5,5 (dal 42' Eduardo Ratinho 5) (dal 76' Janczyk s.v.); D. Carvalho 5,5, Jô 6,5. All.: Gazzaev.
Inter (4-3-1-2): Julio Cesar 6; J. Zanetti 6, Cordoba 5,5, Samuel 7, Maxwell 6,5; Vieira s.v. (dal 17' Stankovic 5,5), Dacourt 6,5 (dal 77' Solari s.v.), Cambiasso 6,5; Figo 6,5; Ibrahimovic 5, Crespo 6,5 (dal 62' Cruz 6). All.: Mancini.

Reti: 32' Jo (CSKA), 52' Crespo (Int), 80' Samuel (Int).
Arbitro: M. Riley

lunedì 22 ottobre 2007

È tornato l'Imperatore?

Il colpo di testa vincente di Adriano. Inter.it

«Grazie a Dio ho messo la testa a posto: devo lavorare bene come sto facendo e dimostrare sul campo di essere cambiato», queste le parole di Adriano ai microfoni di Sky al termine del match vinto con la Reggina grazie ad un suo gol, il primo da 188 giorni a questa parte. La rete, arrivata di testa, è soprattutto merito di Figo - autore di una magnifica punizione sulla quale all’Imperatore si è avventato sfiorando la palla quel tanto che è bastato per metterla alle spalle di Campagnolo -, ma sul tabellino figura il nome di Adriano, nuovamente felice, davvero, dopo tanto, troppo tempo.

In estate si erano visti i primi segnali di rinascita, quando, accompagnato dal solo professor Gaudino, era tornato in Brasile per allenarsi da solo e recuperare lo smalto perduto. In Brasile, sua terrà natia, dove aveva iniziato a tirare i primi calci al pallone, in un campetto spelacchiato a pochi metri dalla sua casa, sul cui tetto-terrazzo si divertiva a giocare con l’aquilone, di Vila Cruzeiro. In quel campetto, che ora si chiama “cantino do Adriano” il piccolo “Pop corn”, come era stato soprannominato dagli amici per la sua passione per i chicchi di mais riscaldati, giocava combattutissime partite e donava i primi baci. Non alle maglie, però: un pomeriggio Pop corn e i suoi amici erano in strada a giocare a “Dire, fare baciare, lettera, testamento”, gioco nel quale ognuno, ad occhi chiusi, deve scegliere una della cinque cose da fare; il piccolo Adriano si mise d’accordo con i suoi amici in modo da scegliere “bacio” quando era il turno di Aline. Il piano riuscì alla perfezione, e Adriano, anzi, Pop corn, baciò la sua Aline. La principale occupazione di Adriano, però, era il futebol. La sua classe lo porta dritto nelle giovanili del Flamengo, dove la sua stazza fisica fa storcere il naso a più di un addetto ai lavori. Lui continua a lavorare sodo nonostante le critiche, e si vede ricompensato dalla vittoria del mondiale under 19 del 1999. In quello stesso anno viene promosso in prima squadra nel Mengão, dove esordisce nel 2000 e termina la stagione con ben 10 reti in 32 partite, numeri che fanno venir l’acquolina in bocca alle big europee. Il tempo di esordire con la Seleçao, il 15 novembre 2000 con la Colombia, e se lo aggiudica l’Inter, con cui debutta il 14 agosto 2001 al Bernabéu di Madrid. Entra all’88’, pochi minuti dopo esulta: la sua punizione al fulmicotone ha appena fatto vibrare la rete delle Merengues. Indubbia la riconferma, anche se con l’Inter le cose non vanno benissimo: Pop corn è la sesta punta, e in cinque mesi va in rete una sola volta in 8 partite, contro il Venezia. A gennaio viene mandato in prestito a Firenze, dove, pur non riuscendo a salvare la Viola, si mette in mostra segnando 6 reti. A Milano, però, per lui non c’è spazio, e viene mandato a maturare ulteriormente a Parma. In due anni in Emilia, l’Imperatore zittisce tutti i suoi detrattori. Nella prima stagione fa faville in coppia con Mutu, chiudendo a quota 18 reti. Non bastano ancora per l’Inter, che lo lascia ai gialloblù. Nel 2003/04 parte ancora più forte, e i suoi 9 gol in 11 partite (sarebbero stati anche di più senza un fastidioso infortunio che lo tenne lontano dai campi per oltre un mese) e questo, oltre allo scarso rendimento dell’Inter, convince Moratti a sborsare 15 milioni di euro per riportarlo in nerazzurro. Con 9 reti e un rendimento stratosferico Adriano porta l’Inter ai preliminari di Champions League, dove elimina ancora una volta praticamente da solo il Basilea. In mezzo, una Coppa America vinta anch’essa praticamente da solo. Nel 2004/05, dopo i preliminari di Champions, Adriano continua a mantenere un folle rendimento. A fine stagione i gol saranno 28: 16 in campionato, 10, compresi i preliminari, in Champions e 2 in Coppa Italia, entrambi nella finale d’andata, visto che salterà quella di ritorno perché in ritiro con la nazionale brasiliana in vista della Confederations Cup, vinta anche quella, che si sarebbe disputata in Germania. L’Imperatore parte ancora più forte nel 2005/06, quando inizia la stagione con una tripletta al Treviso. Inizia però il suo declino, e, dopo una doppietta al Milan nel 3-2 dell’11 dicembre, segna solo una rete nel 2006, alla Sampdoria. Durante l’estate gioca comunque i Mondiali con il Brasile, con cui segna 2 gol. A settembre la situazione, ormai critica, convince Moratti a mandarlo in Brasile per provare a recuperare una voglia di gol perduta. Con mamma Rosilda (papà Almir è scomparso pochi giorni prima del preliminare di Champions vinto con il Basilea) Adriano continua a fare di testa sua, facendosi pizzicare dai paparazzi in scooter senza casco e con una cassetta di lattine di birra in mano. Torna a giocare il 26 novembre, contro il Palermo. Fa due assist e torna nell’ombra. Si guadagna la rincoferma sul filo di lana: il 23 dicembre 2006 segna all’Atalanta, si ripete poi contro il Bahrain in amichevole, l’Empoli in Coppa Italia e Torino e Chievo in campionato. Dopo il gol ai clivensi resta all’asciutto fino al 15 aprile, ossia fino al gol al Palermo. Una settimana dopo diventerà anche campione d’Italia, ma non da protagonista. E siamo a questa stagione, partita con i migliori auspici per il brasiliano, che si diceva ritrovato dopo al preparazione carioca. Sogna anche un posto da titolare al fianco di Ibra, ma un precampionato deludente lo fa scivolare in fondo alla personale classifica degli attaccanti di Mancini, che lo esclude dalla lista Champions. Lui la prende male, ma non lo dà a vedere, impegnandosi come e più degli altri per ottenere un posto da titolare. Mancini lo accontenta contro il Catania, dove dimostra di essere tornato un calciatore. Ancora titolare a Livorno, dove solo i legni gli negano la gioia del gol. Contro la Reggina, però, riesce per la prima volta quest’anno ad inserire il proprio nome nel gabellino alla voce “Marcatori”. Forse è l’ennesimo tentativo di rinascita che poi si rivelerà solo l’ennesima presa in giro dell’Imperatore, o forse è la volta buona. La domanda, però, è sempre quella di un mio post estivo: tornerà Imperatore?
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 15 ottobre 2007

Butzema


Due giocate da bomber vero, quelle contro le modeste Fær Øer, per Karim Benzema, da me storpiato in “Butzema” perché oltralpe “but” significa “gol”, ed è troppo difficile resistere alla tentazione di modificare il cognome di questo ragazzo da molti affiancato a Trezeguet, detto “Trezegol”.

Dopo questa (forse per alcuni) fastidiosa parentesi sul soprannome che ho appena afibbiato all’attaccante franco-algerino in forza al Lione, passiamo ai fatti: sabato 13 ottobre, nel match di qualificazione agli Europei 2008 della Francia, Benzema confeziona gli ennesimi regali per gli occhi dei tifosi transalpini. Prima un colpo di testa, poi un sinistro di rapina per battere lo sfortunato Jakup Mikkelsen, 37enne portiere del B36 Tórshavn che sabato difendeva per la cinquantunesima volta in carriera la porta delle Fær Øer. Due gol, come dicevo, da bomber vero, che avvalorano il pragone con Trezeguet, con cui condivide un buon fisico, delle grandi doti aeree ma, soprattutto, un’implacabilità sotto rete comune a pochi giocatori.

Karima Benzema, figlio di due emigranti algerini provenienti da Tighzert à Beni Djellil, nel nord dell’Algeria.
A Lione Benzema nasce, il 19 dicembre 1987, e cresce, anche e soprattutto sul piano calcistico, visto che, ad appena 9 anni, dopo una parentesi di un anno nel Bron Terraillon, entra nelle giovanili del Lione. Oltre a far faville con le rappresentative giovanili dell’OL, Benzema raccoglie grandi successi anche con le rappresentative under dei Bleus, dove, con l’under 17, conquista nel 2004 il titolo europeo di categoria. L’anno successivo vince un altro alloro di categoria, stavolta con la divisa del Lione: con 12 gol in 14 partite contribuisce alla vittoria del Lione nell’equivalente del nostro campionato primavera.
Questi numeri lo fanno notare agli allenatori della prima squadra, primo fra tutti Paul Le Guen, che gli regala l’esordio in campionato, il 15 gennaio 2005, contro il Metz, una buona prova per lui, ondita da un assist per Bergougnoux, ex attaccante del Lione ora al Tolosa. Per Karim, però, le sorprese non sono finite, infatti il suo primo gol stagionale arriva all’esordio in Champions League, contro il Rosenborg.
Nel 2006/07 Benzema parte titolare nel Lione, con Houllier in panchina che crede in lui. Benzema, ovviamente, ripaga la fiducia partendo a razzo in campionato: un gol al Nantes nella prima giornata, due al Nizza nella quarta, un altro al Marsiglia nella decima. Queste prestazioni gli fruttano anche la chiamata di Domenech, che approfitta del volere del ragazzo, che in passato aveva rifiutato la chiamata della nazionale algerina. Il debutto in bleu viene però rinviato, visto che Karim si infortuna a poche ore dal match. Debutto solo rinviato, però, visto che il 28 marzo 2007 Benzema indossa per la prima volta il bleu della nazionale francese, festeggiando con un gol.
La stagione 2006/07 si conclude con un bottino totale di 8 reti, ma l’esplosione arriva subito dopo, quando Alain Perrin prende posto sulla panchina degli esacampioni di Francia, promuovendo Benzema titolare. Lui, tanto per cambiare, si fa trovare pronto, anzi, prontissimo: 10 gol nelle prime 10 partite di campionato, tra cui spicca una tripletta al Metz, proprio la squadra contro cui aveva esordito.
E siamo ai gol alle Fær Øer, e ad un’esplosione ormai certificata. Benzema, per continuare a migliorare, però, dovrà lasciare la città in cui nato e cresciuto. Per il futuro si vocifera di Fiorentina, Milan e Juve, oppure chissà, Benzema potrebbe trovarsi ad indossare un altro blu, scritto “blue”, in questo caso, il “blue” del Chelsea di Roma Abramovich.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

sabato 13 ottobre 2007

Scozia-Ucraina 3-1


Kenny Miller esulta dopo il gol dell'1-0. PA

Ad Hampden Park, casa a 5 stelle UEFA della nazionale scozzese, partono gli inni. Tempo pochi minuti e le squadre sono in campo.
L’Ucraina schiera un 4-2-4, con un solo incontrista puro, Tymoschuk, a guardia della difesa. Ai suoi lati Gusev, a destra, Vorobei, 85 gol nella Vischi Liha, il campionato di calcio ucraino, alla sua sinistra. In avanti, oltre a Sheva e Voronin, Oleksandr Hladky, «il miglior attaccante ucraino della nuova generazione» secondo Cristiano Lucarelli, suo compagno di squadra allo Shakhtar Donetsk.
La Scozia si dispone in campo con un più disciplinato 4-4-2, con McFadden e Miller in avanti.

La prima occasione del match è di Shevchenko, che dopo un minuto e mezzo calcia alto sulla porta del “black cat” Craig Gordon dopo aver recuperato il pallone sulla trequarti.
La rete della Scozia arriva sugli sviluppi di un calcio di punizione per fallo di Nesmachniy, poi ammonito: McFadden calcia e Miller, al rientro in nazionale dopo aver saltato due partite, anticipa Shovkovskiy e mette in porta la palla dell’1-0.
L’Ucraina prova a riaddrizzare le sorti del match gettandosi in avanti con il proprio arsenale offensivo, ma l’unica occasione rilevante prima del 2-0 della Scozia arriva in contropiede con Gusev, che calcia alto dopo aver saltato due scozzesi al limite dell’area.
Dicevamo del 2-0: ancora un calcio di punizione, ancora un gol. Stavolta la rete è di Lee McCulloch, che controlla il pallone e batte Shovkovskiy con un preciso destro dopo essere stato trovato libero in area da un calcio di punizione di Barry Ferguson. Per il 29enne centrocampista dei Rangers è la prima rete in nazionale; per la Scozia è un 2-0 che avvicina sempre più gli “highlander” ad un sogno chiamato europeo; per Oleg Blokhin, praticamente, la fine dell’incarico da c.t. dei gialloblù.
Sheva, da buon capitano, prova a crederci, anche se l’unico aggettivo per ciò che combina il pallone d’oro 2004 nei 5 minuti successivi al gol di McCulloch è “disastroso”. E’ sempre Sheva, dopo 10 minuti di “combattimento” a metà campo, a riaprire il match con un destro di rapina su errore di McManus, facendo ricredere i suoi detrattori.
L’Ucraina, priva di centrocampisti in grado d’impostare l’azione, continua ad affidarsi ai lanci lunghi, che al 30’ si rivelano utili quando liberano Yezerskiy davanti a Gordon. Il difensore dello Shakhtar, però, va con il piede molle sul pallone e lo mette clamorosamente fuori.va al riposo dopo 3 dubbi rigori, tutti non concessi dall’arbitro Fink. La ripresa inizia con un cambio: fuori Gusev e dentro Rotan. Questa sostituzione fa sì che lo schieramento ucraino vari: si passa dal 4-3-3 del primo tempo ad un assai improbabile 4-2-4 con un ancor più improbabile attacco disposto a rombo, inizialmente con Rotan a sinistra, Vorobei a destra e Voronin alle spalle di Sheva.
La prima occasione della ripresa arriva al 50’, quando Voronin calcia fuori su invito del neoentrato Gusev.
Le posizioni dell’inedito rombo offensivo dell’Ucraina cambiano, e al 55’ Sheva, in versione ala destra, serve Hladky a centro area. L’attaccante dello Shakhtar va a terra, ma per Fink non è rigore.
Al 60’ inizia la consueta girandola dei cambi: fuori McCulloch e dentro Dailly per la Scozia, fuori Vorobei e dentro Nazarenko per l’Ucraina due minuti dopo.
Al 68’ McFadden chiude a chiave il match battendo Shovkovskiy e portando i suoi sul 3-1, sempre più vicini al sogno chiamato Euro2008.
L’Ucraina, incurante della disastrosità della propria difesa, si getta in avanti alla ricerca di una chiva in grado di riaprire la partita, lasciando però ampi spazi al contropiede della Scozia.
Altri cambi: fuori Tymoschuk e dentro Shelayev; fuori Brown e dentro Maloney; fuori il man of the match McFadden e dentro O’Connor.
Seguono 10 minuti di velleitarie iniziative degli ex sovietici, poi, dopo 3 minuti di recupero, Fink fischia la fine. La Scozia è ad un passo da Euro2008, l’Ucraina è fuori dai giochi.
Antonio Giusto



Fonte: SportBeat

martedì 9 ottobre 2007

La prima doppelpack di Toni



E finalmente è arrivata! Di cosa sto parlando? Della prima doppietta di Luca Toni - per i bavaresi, ormai, Tori, sfruttando un gioco di parole con la parola “tor”, che significa “gol”, e il nome dell’attaccante di Pavullo -, ovvio. Per il fidanzato della splendida Marta Cecchetto, questi sono i primi 2 gol in una stessa partita, visto che i precedenti 6 erano arrivati senza accompagnatori, come invece avvenuto contro il Norimberga, quando Toni è stato bravo prima a sfruttare una disattenzione di Blazek su una punizione di Hamit Altintop, poi a insaccare in rete un corner di Zé Roberto, sbucando all’improvviso – “come un fantasma”, direbbe Gerd Müller, che ha paragonato Toni al sé stesso dei tempi d’oro - nell’area del Club, come viene soprannominato il Norimberga in Germania.

Luca Toni, emiliano di Pavullo del Frignano, in provincia di Modena, nasce il 26 maggio 1977. Mamma Valeria fa la bidella, papà Gianfranco l’imbianchino.
Il piccolo Luca inizia nel Serramazzoni, la squadra della sua città, ma si trasferisce poi al Modena, dove l’ex juventino Celsinho ha un’intuizione che farà la fortuna dello Sportivo dell’Anno 2006: Toni diventa attaccante, abbandonando il vecchio ruolo di centrocampista. Da attaccante compie la trafile delle giovanili dei canarini, con cui esordisce in C1 nel 94/95. Resta a Modena anche nella stagione successiva, segnando 5 gol e facendosi notare dall’Empoli, che lo acquista, salvo poi fargli giocare appena tre partite (condite comunque da un gol).
Toni torna quindi in C1, per rilanciarsi dopo la negativa esperienza in B. Con la Fiorenzuola, però, un’altra stagione negativa, chiusa con appena 2 reti all’attivo.
Si trasferisce allora alla Lodigiani, terza squadra di Roma. Con Guido Attardi (defunto il 5 settembre 2002), da lui stesso definito «il primo a credere realmente nelle mie qualità». Sotto la guida del tecnico aquilano Toni segna 15 gol, che gli valgono la chiama del Treviso, dove cambia la serie, ma non il risultato: il suo bottino a fine stagione parla di 15 gol, che gli fruttano la chiamata del Vicenza di Guidolin (con cui non avrà un rapporto felice), in serie A.
Il sogno di Luca si avvera il primo ottobre 2000: Milan – Vicenza 2-0. Quell’anno Toni segnerà 9 gol, inutili, però, per salvare il Vicenza, che retrocede.
Stagione 2001/02, settima squadra in sette anni per Toni: il Brescia. Con le rondinelle arrivano 13 reti al primo anno, tante per merito del Divin Codino. Toni si ferma a Brescia un’altra stagione, ma questo non gli porta bene: un grave infortunio al ginocchio ne ritarda l’esplosione, che avviene a Palermo, in B, nella stagione successiva.
Con i rosanero segna 30 gol in 43 partite, contribuendo alla promozione e stabilendo un record, il primo di una lunga serie. Nella stagione successiva si ferma a Palermo, con esiti contrari a quelli di Brescia: 20 gol, grande campionato preannunciato, in un certo senso, da Lippi, che lo chiama per Islanda – Italia e ne fa una delle pietre miliari della squadra che, nel luglio di due anni dopo, vincerà il mondiale.
A Palermo però Toni ha delle incomprensioni con il vulcanico Zamparini, che non si fa problemi a mandarlo via, in cambio di 10 milioni di euro, però.
La nuova destinazione di Toni e Furmini, come verrà soprannominato dai tifosi della Viola è, per l'appunto, Firenze. In viola Luca tocca picchi altissimi in classifica marcatori, arrivando a 31 gol, -2 dal record assoluto di Angelillo, evincendo la Scarpa d’Oro. Non è però questo il premio più importante vinto da Luca in quella stagione: a luglio arriverà anche la coppa del mondo, a cui lui contribuira in maniera decisiva, segnando anche 2 gol all’Ucraina nei quarti di finale.
A settembre, però, è tempo di rivestirsi di viola, che però porta sfortuna: qualche infortunio e “appena” (per lui) 16 reti. Al termine della stagione è tempo di lasciare Firenze, per onorare la tradizione che non lo vuole mai in una stessa squadra per più di due anni.
Ad accaparrarselo è il Bayern, che offre 11 milioni alla Fiorentina e un contratto principesco a lui, che accetta immediatamente. In Baviera, dove è orma diventato Luca Tori (della spiegazione leggete sopra), il centravanti di Pavullo del Frignano è a 8 reti in 8 partite, e assieme al trio dei sogni composto da Ribéry e Klose sta guidando il Bayern verso uno Schale, che sarebbe il primo per Luca Toni, che pare già sicuro.
Antonio Giusto



Fonte: SportBeat

giovedì 4 ottobre 2007

Il crollo di Dida. E del Milan.

Novantunesimo minuto di Celtic – Milan. I campioni d’Europa hanno appena subito da McDonald (che di nome fa Scott, non Ronald) la rete del 2-1 che li condanna alla sconfitta. Un “imbecille”, come è stato definito dai media (che si pronuncia “media”, non “midia”, perché deriva dal latino) entra in campo e tira un buffetto a Dida. Il portiere brasiliano rincorre l’invasore per due metri, poi, d’improvviso, si accascia al suolo. Arrivano i soccorsi, e Dida esce dal campo il barella, salvo poi rientrare poco dopo in ottimo stato.
Ecco, il crollo di Dida è l’immagine del Milan attuale. Campione, anzi, Supercampione d’Europa, ma sconfitto da Palermo e Celtic, mica Real Madrid e Barcellona. Dal primo settembre, dopo le due vittorie in casa di un Genoa appena tornato in A dopo 12 anni (e proposto da Gasperini con una folle difesa a 3) e di un Siviglia che definire “scosso” per la morte di Puerta è poco, i rossoneri hanno vinto solo in un’occasione: contro il Benfica di un Rui Costa agli sgoccioli e di un Cardozo incapace di buttare il pallone in rete da mezzo metro. Vittoria giunta per mano di un Pirlo, in campo per caso dopo i fastidi accusati nei match di qualificazione agli europei contro Francia e Ucraina, autore di una magnifica punizione (Caressa la chiama “la maledetta”) e di un altrettanto magnifico assist per un Pippo Inzaghi pronto — in quell’occasione, non contro il Catania — ad insaccare il pallone in rete.
Da allora due pari, preceduti da altrettante “X” contro Fiorentina e Siena, e due sconfitte contro il Palermo e il Celtic.
L’araba fenice, tanto declamata da un Galliani (che si starà strappando i capelli che non ha, in questo momento) stenta a risorgere dalle proprie ceneri, e si rifugia in spiegazioni che sanno di scuese, come quella di Ancelotti - «Io preferisco ripartire dalla buona prova di Glasgow senza drammatizzare: le cose non possono che migliorare. La partita è stata molto combattuta, vissuta sul piano fisico e non su quello tecnico. Sono soddisfatto perché abbiamo concesso poco, in pratica solo su calcio d’angolo. Il Celtic in casa si trasforma, diventa molto pericoloso» le parole del tecnico emiliano – e sceneggiate, come quelle di Dida.
Dida che, dopo aver dimostrato un notevole regresso, sta ormai tornando ai livelli della notte del 19 settembre 2000. Non ricordate? Piccolo aiutino: Lee Bowyer. Ancora nulla? Leeds – Milan 1-0, rossoneri fuori dalla Coppa Uefa. Dopo quella terrificante papera per Dida l’unica soluzione fu espatriare, passando i due anni successivi al Corinthians, in Brasile. Chissà che non sia la soluzione buona anche per questa occasione.
Antonio Giusto



Fonte: SportBeat

martedì 2 ottobre 2007

BenTotòrnato!



Quando all’83° minuto di un Samp - Atalanta ormai già chiuso, Volpi ha messo un pallone morbido per Cassano, che ha controllato e battuto Coppola, il calcio italiano ha ritrovato uno dei suoi più grandi talenti: Antonio Cassano, il pibe di Bari Vecchia.
L’ultimo gol di Cassano in serie A risaliva all’11 dicembre 2005: Roma – Palermo 1-2. Pochi giorni dopo Cassano avrebbe iniziato il suo lungo calvario madrileno, agli ordini di López Caro prima e di Fabio Capello poi. Rapporto infelice con entrambi, e picco toccato nel dicembre del 2006: Fantantonio imita l’allenatore Goriziano davanti a Diarra, Cannavaro, Ronaldo e, per sua sfortuna, anche davanti alle telecamere. Ovviamente questa scenetta non fa piacere a Capello, che mette fuori rosa il barese. Per lui, quindi ennesima litigata con i suoi allenatori: cattivi rapporti con Capello, López Caro, ma anche Spalletti e tutti quelli che lo avevano avuto da quando Cassano lasciò Bari, dopo aver incantato il San Nicola per due stagioni.
Proprio a Bari, casa sua, dove era cresciuto sin da piccolo con la mamma, visto che del padre si erano presto perse le traccie, Totò aveva trovato l’ultimo allenatore in grado di capirlo prima di incontrare Mazzarri alla Samp: Eugenio Fascetti, il suo mentore, uno dei pochi che ha sempre creduto in lui.
Con Fascetti, che lo promuove in prima squadra ad appena 17 anni e lo butta nella mischia contro il Lecce, l’11 dicembre 1999 nella sconfitta per 1-0 rimediata dai galletti contro i salentini. Fascetti però crede in Cassano, e lo fa addirittura partire titolare contro l’Inter, la sua squadra del cuore, la settimana successiva. E’ la notte del 17 dicembre, e tutt’Italia scopre un grandissimo talento, Antonio Cassano: servito da Perrotta, il barese salta due avversari e batte Ferron, subentrato a Peruzzi, per il definitivo 2-1. Il suo gol fa il giro del mondo, e il suo nome fa il giro dei giornali. Tutte le prime pagine sono sue, e l’interesse delle big arriva presto. Dopo un’altra stagione Prima la Juve lo tenta, ma è Sensi ad avere la meglio: 60 milioni al Bari e Cassano alla Roma.
A Roma Cassano resta per 4 anni, vincendo la SuperCoppa Italiana 2001, segnando 38 gol e mandando a quel paese, come si sual dire, diversi allenatori e qualche arbitro – famoso il suo “cornuto!” rivolto a Rosetti nella finale di Coppa Italia 2003/04 dopo essere stato espulso. Durante la parentesi romanista Cassano trova però il modo di farsi cacciare, di fatto, dalla nazionale under 21 e di partecipare alla sfortunata spedizione portoghese degli Europei 2004, rivelandosi il miglior giocatore degli azzurri, eliminati però nella fase a gironi a causa del famoso 2-2 scandinavo. Famoso lo striscione “Non si leva a Cassano” comparso in un vicolo della città natia di Fantantonio dopo la sostituzione del suddetto nel match – pareggiato 1-1 - contro la Svezia di Ibrahimovic.
L’addio alla Roma avviene nel gennaio 2006, quando, dopo aver definitivamente rotto con Spalletti, Cassano firma con il Real Madrid. Purtroppo la pomposità della sua accoglienza nella capitale spagnola si rivela inversamente proporzionale alle sue prestazioni in campo: dopo il gol all’esordio contro il Betis, tanto lavoro a parte e tanta panchina. Pochi, invece, i gol, appena quattro nella sua avventura madrilena, che termina il 13 agosto 2007, quando dopo una lunga trattativa il ds sampdoriano Marotta porta nella città della Lanterna il pibe de Bari con un prestito con diritto di riscatto fissato a 5,5 milioni di euro.
Dopo essersi infortunato all’esordio in blucerchiato ed aver recuperato a tempo di record, Totò fa il suo esordio proprio nel derby con il Genoa, nel quale però non incide.
E siamo ai giorni nostri, al gol all’Atalanta e all’abbraccio con Mazzarri, l’unico che ancora credeva in lui. L’unico oltre a Eugenio Fascetti.
Antonio Giusto



Fonte: SportBeat

domenica 23 settembre 2007

C'esc fantastique!



L'Arsenal asfalta anche il Derby County (nutro pochi dubbi sul fatto che potrebbe riuscirci anche la Villacidrese, con tutto il rispetto dovuto alla squadra sarda) grazie a 3 gol di Adebayor. In gol anche Fabregas e Diaby. Niente da dire sul secondo, ma per il prio il termine "ancora" è certamente più corretto, visto il folgorante avvio di stagione del 20enne di Arenys de Mar, 20 chilometri da Barcellona, dove Cesc è calcisticamente cresciuto.
«Il futuro dell'Arsenal» (con cui ha firmato, il 19 ottobre 2006, un contratto della durata di 8 anni, ovvero fino al 2014), come lo ha definito il suo mentore Arsene Wenger, inizia nel Barça, dove si impone all'attenzione generale a suon di gol e grandi giocate. Gol e grandi giocate che, però, non gli valgono la prima squadra, con cui non riesce ad esordire. Cesc, però, dimostra il suo valere nel Mondiale under 17 di quell'anno: capocannoniere e miglior giocatore della manifestazione, non campione, però: le Furie Rosse si arrendono in finale ad un gol del difensore brasiliano Leonardo. Cesc, però, continua ad avere difficoltà al Barça, allora un cinquantenne con i capelli brizzolati, che di nome fa Arsène Wenger e di mestiere l'allenatore dell'Arsenal, fiuta l'affare e porta Fabregas a Londra, con la promessa di farne l'erede di Patrick Vieira.
L'avventura londinese non inizia nel migliore dei modi per Cesc, che fa fatica ad ambientarsi nella capitale londinese. Ad aiutarlo ci pensano lo svizzero Senderos e il signore con i capelli brizzolati, che gli regala tre occasioni per metersi in mostra. Cesc, ovviamente, le sfrutta tutte. Il 23 ottobre esordisce contro il Rotherham United a 16 anni e 177 giorni, diventando il più giovane esordiente nella sotira dell'Arsenal. Nella sua seconda partita, nel successivo turno di League Cup contro i Wolves, Cesc abbatte un altro record: all'88° minuto segna il suo primo gol da Gunners ad appena 16 anni e 212 giorni. Cesc protagonista in coppa, quindi, ma non in campionato, dove non gioca nemmeno una partita e non viene quindi incluso nella squadra campione d'Inghilterra.
La stagione successiva comincia in modo diverso, grazie soprattutto agli infortuni di Vieira, Gilberto Silva ed Edu, che consento a Fabregas di sfruttare al meglio il consiglio del detto latino "mors tua vita mea". Nel 2004/05 Cesc guadagna un posto da titolare e si diverte ad abbattere qualche altro record, vincendo anche la FA Cup e il ("shield", ovvero "scudo", è un sostantivo maschile, precederlo con un articolo determinativo femminile come fanno in molti è, pertanto, un errore) Community Shield. Tutti si accorgono di Cesc, ma la sua esplosione avviene nel 2005/06.
Stagione 2005/06, appunto: Vieira ha lasciato Highbury e il suo numero 4, di cui si è impossessato Fabregas, chi altri se no? Con il 4 sulle spalle Cesc guida i suoi Europa, dove i Gunners si arrendono solo in finale ad un Barça eccezionale. Secondo posto per l'Arsenal, ma Cesc può consolarsi con i premi Bravo, del Gurin Sportivo, Golden Boy, di TuttoSport, l'inclusione nel top 11 europeo 2006 ma, soprattutto, con la convocazione per il Mondiale tedesco, dove però né lui né la Spagna brillano. Le Furie Rosse escono agli otavi contro la Francia, poi finalista; lui viene candidato al premio di miglior giovane dalla manifestazione, ma il vincitore è Podolski.
Altra grande stagione per lui nel 2007, ma i Gunners vanno male, rischiando addirittura di venire esclusi dai preliminari di Champions.
E ora siamo ai giorni nostri: dopo 9 partite il tabellino di Cesc parla di 7 gol e 6 assist, distribuiti tra Champions e Premier League, dove l'Arsenal è primo. Una sorpresa? Non per l'uomo con i capelli brizzolati che, in un giorno di settembre del 2003, portò Cesc all'Arsenal.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

martedì 18 settembre 2007

Tre regali Di Natale



A Natale di solito nasce Gesù, in questi giorni, invece, è rinato uno che il Natale se lo porta nel nome.
Dopo essere addirittura finito fuori squadra a metà Agosto per via di alcuni comportamenti giudicati “da prima donna” da parte della società, l’attaccante di Napoli è fragorosamente tornato in scena.
Prima, i 34 minuti concessigli da Marino nella disfatta interna contro il Napoli, che gli sono valsi la convocazione in Nazionale. 17 minuti contro i Bleus, poi i 2 regali a Kiev, contro l’Ucraina di Sheva, confezionati con l’aiuto dei milanisti Pirlo e Ambrosiani.
Il terzo regalo, destinato a tutti quelli a cui non sta simpatica – nella maggior parte dei casi per usare un eufemismo – la Vecchia Signora. Al 2’ della ripresa Totò, accanito fan di Gigi D’Alessio con cui ha recentemente dettato, insacca il pallone dell’1-0 alle spalle del suo amico e compagno di Nazionale Gigi Buffon con un preciso colpo di testa su assist di un altro nazionale, under 21 stavolta: Dossena.
Antonio Di Natale, per tutti Totò, nasce a Napoli il 13 ottobre 1977 ed è lì inizia a tirare i primi calci al pallone. Lascia Napoli da ragazzino per andare nel florido vivaio dell’Empoli e seguire la strada di tanti suoi concittadini che avevano già compiuto in passato il medesimo percorso, come l’”aeroplanino” Montella, trasferitosi ad Empoli nel 1990.
Totò, però, non ottiene sin da subito i risultati di Montella, ed è quindi mandato a farsi le ossa nelle serie minori. Per lui, dopo una presenza in B nel 1997, 33 partite e 6 gol in C2 con l’Iperzola. Prova l’avventura in C1, ma dopo sole 4 partite viene rispedito in C2, stavolta al Viareggio dove si guadagna la chiamata dell’Empoli con 12 gol in 25 gare.
Dopo tanto peregrinare, quindi, per Totò l’occasione buona si presenta nel 1999/00. I suoi 6 gol in 25 partite però non bastano per la promozione dell’Empoli, che chiude all’ottavo posto. L’anno successivo Totò è titolare, e l’Empoli sfiora la promozione concludendo al quinto posto anche grazie alle sue 9 reti. La stagione della definitiva esplosione di Di Natale è quella successiva, ossia la 2001/2002. L’Empoli arriva quarto e sale in A grazie soprattutto alla scoppiettante coppia d’attacco formata da lui e Maccarone, 26 gol in due. L’esordio in A avviene il 14 settembre 2002, contro il Como. Totò rende ancor più bello quel giorno segnando la rete del definitivo 0-2 al 15’ del secondo tempo. Sempre nel 2002 arriva anche l’esordio in Nazionale il 20 ottobre, nell’1-1 con la Turchia. In gol per l’Italia va Vieri, che risponde all’1-0 segnato 10 minuti prima dal suo compagno di squadra Emre, ma gli applausi vanno tutti a Totò, per cui spende parole importanti anche il C.T. Trapattoni. La stagione successiva non è delle migliori né per l’Empoli né per Di Natale: per l’attaccante napoletano appena 5 reti, per l’Empoli un 16° posto che significa serie B. Non per Di Natale però, che il 30 agosto passa all’Udinese. A portarlo in Friuli è Pierpaolo Marino, attuale direttore generale del Napoli.
Nel primo anno ad Udine Totò gioca bene e compone assieme a Di Michele e Iaquinta un trio d’attacco da 35 gol che porta i friulani in Champions. In Europa Di Natale si mette in mostra segnando 3 reti al Werder Brema, che però non bastano per il passaggio dei bianconeri agli ottavi. Di Natale non si demoralizza, e va in gol anche in Uefa, contro i francesi del Lens. Segna anche in campionato (8 gol) e in Coppa Italia, risultando l’unico italiano ad essere andato in rete in tutte e quattro le competizioni. Ritorno in doppia cifra nella scorsa stagione, inutile però per l’Udinese, salva e senza sogni europei.
Totò, però, ha dimostrato di volersi far valere anche in Europa: i 2 gol all’Ucraina sono un chiaro segnale a Donadoni in vista dell’Europeo.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

mercoledì 12 settembre 2007

Calciatori di colore come vacche sacre

«La squalifica di Zebina è stata minima per via dei "buuu" razzisti tributatigli dai tifosi del Cagliari alla sua uscita dal campo», ecco cosa diceva oggi un giornalista di Sky in un servizio a Sport Time. "Buuu" razzisti? Ma dove? Non ho mai visto uscire un giocatore avversario (che tra l'altro aveva schiaffeggiato un addetto ai cartelloni) dal campo tra gli applausi. E poi i fischi sarebbero razzisti perché rivolti a Zebina che è di colore? Qui qualcosa non torna, come succede da un po' quando in disdicevoli episodi che avvengono sul campo da calcio ci sono di mezzo giocatori di colore.
Da quando i tifosi nerazzurri fischiarono Zoro e gli urlano «negro di m...» e frasi simili, in tutte le situazioni in cui sono implicati giocatori di colore si parla sempre di razzismo.
Il razzismo è sempre stato presente nel calcio, purtroppo. Ad esempio ci sono piazze come Verona dove sei hai la pelle nera vieni tassativamente fischiato, senza distinzioni di maglia, sia quella degli scaligeri o quella degli avversari. Questo è razzismo, sì, come quando i tifosi del Saragozza (se non erro) furono zittiti da Eto'o che per esultare dopo una rete festeggiò imitando un gorilla, animale a cui era stato paragonato nel corso del match.
Razzismo non sono i fischi a Zebina, o il "puzzi" mimato da Baros ad un avversario di colore dopo che questi gli aveva sputato.
Diamoci una regolata, per favore, o iniziamo a considerare anche i «figlio di p...» rivolti a Materazzi praticamente dovunque razzismo visto che Matrix è nato a Lecce, che è al sud, e che secondo Totti, come Roma, viene denigrata dalle città e dagli abitanti (quindi anche dai giornalisti) settentrionali.
Questo è solo un sfogo, non sono assolutamente razzista, anzi, è solo che sentire definito "razzistico" qualsiasi atteggiamento ostico a giocatori di colore non mi va giù.

domenica 9 settembre 2007

Mondiali U17: Nigeria Campione di rigore

9.09.2007



GERMANIA-GHANA 2-1
Sotto gli occhi del presidentissimo della Fifa Sepp Blatter, Ghana e Germania scendono in campo in una (finalmente) assolata Seoul.
La prima parte di gara è di marca tedesca, e questo dominio si concretizza al 17’, quando Toni Kroos, e chi altrimenti?, segna la rete dell’1-0 battendo il portiere ghanese Addo con un preciso calcio di punizione.
Il primo tempo continua senza particolari occasioni e si va all’intervallo sull’1-0 per la Germania.
Nella ripresa Tetteh motiva i suoi, che scendono in campo agguerriti e fanno la partita. Questa determinazione si traduce in gol al 67° minuto, quando il numero 10 Osei insacca il cross di Quansah proveniente dalla destra. Sesto sigillo per l’attaccante ghanese nel torneo.
Il Ghana non si accontenta e continua a fare la partita, lasciando però spazi al contropiede della nazionale tedesca che, al 73’, si presenta con Dowidat in area di rigore. Il destro dell’attaccante del Gladbach viene però neutralizzato da Addo. Sempre Addo, all’80’, para una punizione di Toni Kroos.
Al minuto numero 82 Heiko Herrlich compie una mossa che si rivelerà decisiva: fuori l’affaticato Dowidat e dentro Esswein.
Esswein, però, non vuoel restare in campo a lungo: prima cerca di guadagnarsi un rigore tuffandosi in area e guadagnando solo un gelbe karte, poi, un minuto dopo, segna (su assist del solito Kroos) il gol del 2-1 che scongiura I supplementari e decide di uscire: via la maglia e seconda ammonizione, che significa rote karte, cartellino rosso.
Dopo il gol di Esswein da annotare solo l’infortunio di Reusch, sostituito da Patrick Funk.
Al 96’ Benquerenca sancisce la fine del match.

SPAGNA-NIGERIA 0-3 D.C.R.
Spagna e Nigeria, entrambe campionesse continentali, scendo in campo per giocarsi il titolo di squadra più forte del mondo al livello under 17. Arbitra Yuichi Nishimura, giapponese, arbitro di professione.
La prima occasione è per gli iberici: al settimo minuto Sergio mette la palla alta sulla porta di Ajiboye sugli sviluppi di una punizione calciata da Fran Mérida.
La Nigeria risponde subito dopo con Rafeal, sostituto di capitan Haruna, che calcia anch’egli alto sulla porta di De Gea.
Le azioni degne di nota si susseguono, e una delle più ghiotte è ancora per Rafeal che alla mezzora del primo tempo calcia sull’esterno della rete dopo aver saltato il madrileno Nacho.
Occasione ancor più ghiotta capita ancora a Sergio 5 minuti dopo: sugli sviluppi di un calcio d’angolo va a colpire la palla a botta sicura, ma Mustapha Ibrahim salva sulla linea.
Al 73’ Yemi Tella prova a ripetere la “magia” già compiuta in finale di coppa d’Africa con il Togo inserendo Akinsola, che in quella occasione fu il match winner.
Nel finale Isa prova ad evitare I supplementari, ma trova De Gea sulla sua strada.
Nei supplementari una traversa per parte e nulla più.
Si va ai rigori, dove la Nigeria si impone grazie alle reti di Edile, Joshua e
Oseni. La Spagna invece resta a secco per via degli errori di Illarramendi, Mérida e Iago.
14 anni dopo, a Nigeria è campione del mondo under 17.


Antonio Giusto

Fonte: SportBeat.tv

venerdì 7 settembre 2007

Mondiali Under 17: le semifinali

SPAGNA-GHANA 2-1


(clicka sul'immagine per vedere gli highlights)

La Spagna è in finale grazie ad un gol al 116' di Bojan Krkić, espulso nel finale e quindi squalificato per il match contro la Nigeria.

Contro il Ghana, che nella fase ad eliminazione diretta non aveva ancora subito gol, gli spagnoli partono sottotono, con il Ghana che fa la partita e va al tiro per la prima volta con Sadick Adams, anch'egli squalificato per l'atto conclusivo della manifestazione.
Al 34° ancora Adams spreca da pochi passi, calciando sull'esterno della rete. L'occasione più ghiotta del primo tempo è però di marca spagnola: per due volte Enoch Adu salva sulla linea di porta, mantenendo lo 0-0 fino al termine della prima frazione.
Nella ripresa Tetteh, l'allenatore del Ghana, toglie Donkor, classe 1991, ed inserisce Quansah, 4 assist nella manifestazione, un altro attaccante. Da annotare due cartellini gialli spagnoli: uno a Bojan ed uno all'"inglese" Merida.
Il gol arriva al 67': cross dalla sinistra di Iago, canterano del Barça, per Aquino che controlla male, con la mano a detta dei ghanesi, ed insacca alle spalle del portiere ghanese Joseph Addo.
Seguono due cambi della Spagna: fuori Lopez e Iago e dentro Lukas e Illarra.
La rete del pareggio del Ghana porta la firma del solito Adams, alla quarta rete nel torneo.
Si procede sull'1-1 con le squadre stanche e bloccate fino al 116', quando Bojan, l'unico ancora in grado di correre, prima guadagna una punizione dal limite dell'area e poi, sfruttando i blocchi, si libera e calcia all'altezza del dischetto. La palla è in rete, la Spagna under 17 in festa. Festa che dura per poco visto che, dopo un tentativo dai 35 metri di Tetteh, Bojan ha un diverbio con l'ottimo Fagundes Filho, arbitro del match, e si vede sventolare in faccia una tarjeta roja che gli preclude la partecipazione alla finale.

NIGERIA-GERMANIA 3-1


(clicka sull'immagine per vedere gli highlights)

La Nigeria approda alla finale grazie alle disattenzioni della difesa tedesca, abile a farsi bucare da Chrisantus, Alfa e Akinsola. Per gli uomini di Heiko Herrlich la rete del momentaneo 1-2 porta la firma dell'ottimo Toni Kroos.

La prima occasione del match è per Sascha Bigalke che, dopo aver saltato tre avversari calcia debolmente tra le possenti braccia di Ajiboye.
Il gol dell'1-0 è però della Nigeria che sfrutta con Macauley Chrisantus, settima rete per lui, un'incertezza di Rene Vollath.
Al 16' Yemi Tella sostituisce capitan Haruna, infortunatosi, con Rafeal, che prende ruolo e fascia del capitano.
Il capitano cambia, ma la sostanza no: al 18' ancora un errore di Rene Vollath, che non blocca un sinistro velleitario di Alfa, in gol in modo simile contro la Colombia agli ottavi.
Sul 2-0 a proprio favore la Nigeria non si accontenta e, sotto la pioggia, continua ad attaccare non trovando però il terzo gol. Ne approfitta allora la Germania in cui Toni Kroos, dopo un dribbling al limite dell'area, calcia di sinistro a batte Ajiboye per il 2-1 che riapre il match che pochi minuti dopo rischia di essere addirittura messo in parità quando Sukuta-Pasu colpisce il palo alla sinistra di Ajiboye con un colpo di testa all'indietro.
Nella ripresa, che inizia con l'inserimento di Isa al posto di Amodu nella Nigeria, la Germania cerca di fare la partita, ma i nigeriani dimostrano di essere sempre pronti ad approfittare dei varchi nella difesa della Fußballnationalmannschaft.
Nelle battute finali i nigeriani trovano per due volte la terza rete: prima con Maca Chrisantus, che si vede annullare il gol e, nell'azione successiva, con Akinsola che batte Vollath con un magnifico pallonetto dopo l'ennesimo errore della difesa tedesca.

Spagna e Nigeria in finale.


Di Antonio Giusto

Fonte: SportBeat

lunedì 3 settembre 2007

Argentina-Nigeria 0-2

(clicka sull'immagine per vedere gli highlights)

La Nigeria è in semifinale, dove affronterà la Germania, che ha strapazzato 4-1 l'Inghilterra.
Gli uomini di Tella, che ho soprannominato "Super Aquilotti", hanno sconfitto agevolmente l'Argentina con le reti del capitano Lukman Haruna su rigore da lui stesso procurato e del solito Macauley Chrisantus, che, dopo aver fatto innamorare me contro la Francia nel match inaugurale, spero abbia fatto innamorare (sempre in senso calcistico, eh) qualche centinaio di scout.
Sabato sera piazzo la sveglia alle 8:55, e domenica mattina alle 9 sono davanti alla tv per vedere i "miei" (ormai sono diventato un loro tifoso) Super Aquilotti contro l'Argentina.
La prima vera occasione è per gli argentini: Alexis Machuca calcia una punizione dai 30 metri sulla quale Ajiboye si fa trovare pronto.
Il vantaggio dei Super Aquilotti arriva al 33': sugli sviluppi di un corner dalla destra la palla arriva a centro area a Maca Chrisantus che serve con un colpo di tacco "ibrahimoviciano" l'accorrente Haruna, che nello slancio perde l'equilibrio ma l'arbitro vede un tocco del capitano argentino Fernando Meza, che ammonisce, e concede il rigore. Dal dischetto va lo stesso Haruna, che calcia alla destra di Ojeda e segna la rete dell'1-0.
Il raddoppio arriva nel finale della prima frazione, quando Chrisantus (e chi e non lui?) batte con il piattone destro Ojeda dopo una precisa triangolazione con il classe 1991 Rabiu Ibrahim.
La ripresa inizia con l'ingresso di Oliva al posto di Bittolo nell'Argentina. Tella risponde sostituendo capitan Haruna con Osanga.
Il match prosegue con i tentativi dell'Argentina di riaprire il match puntualmente bloccati dalle folli uscite di Ajiboye, tra i migliori in campo. Nel finale Akinsola, subentrato ad Isa, fallisce clamorosamente il 3-0 calciando fuori dopo aver saltato anche Ojeda.
L'Argentina ci prova ancora, ma dopo 3 minuti di recupero l'australiano Matthew Breeze fischia la fine. La Nigeria è in semifinale.

Bundesliga - 4.spieltag



Nella 4 giornata di Bundesliga il Bayern interrompe la propria striscia vincente pareggiando 1-1 alla Nordbank Arena, per gli sponsor, Volksparkstadion per i tifosi, di Amburgo. Pareggiando contro l'Amburgo il Bayern guadagna solo 1 punto e si porta a quota 10, +3 sulle inseguitrici Bochum, Bielefeld, Eintracht, lo stesso Amburgo e il Werder Brema.

Gli uomini di Ottmar Hitzfeld, dopo aver sofferto più nel primo tempo di questa partita che nei precedenti 3 match, rischia addirittura di andare in svantaggio quando il croato Ivica Olić costringe Kahn alla terza parata stagionale. Anche il neoacquisto degli anseatici, Romeo Castelen, prova ad impensierire Kahn, ma la sua mira non è irresistibile.
Il gol del vantaggio dei bavaresi giunge al 75° minuto, quando Klose, al rientro dopo l'infortunio patito contro il Werder, insacca di coscia alle spalle di Frankie Rost su preciso cross di Lell.
Il Bayern continua ad attaccare sfiorando il raddoppio con Altintop e Eric Maxim Choupo-Moting, che è dell'Amburgo ha 19 anni e colpisce un clamoroso auto palo.
La rete dell'HSV arriva all'87°, quando Zidan insacca alle spalle di Kahn.
finale Hitzfeld toglie Klose e Ribéry e inserisce Sosa e Wagner, dimostrando di accontentarsi dell'1-1.

ALTRE PARTITE

Schalke - Leverkusen 1:1 (1:0)
Lo Schalke pareggia 1-1 con il Leverkusen e rimane a -4 dal Bayern. Per i Knappen, i minatori, ancora imbatutti, la rete del vantaggio porta la firma di Kevin Kuranyi, la risposta delle Aspirine è di Theo Gekas, capocannoniere della scorsa Bundesliga.

Duisburg - Bielefeld 3:0 (0:0)
Il Duisburg spazza via l'Arminia Bielefeld in appena sei minuti in cui Maicon e una doppietta di Ishiaku chiudono i conti. L'MSV Duisburg si porta a 6 punti, l'Arminia dice addio al sogno di condividere per una settimana la testa della classifica con il Bayern.

Rostock - Dortmund 0:1 (0:0)
Il BVB vince 1-0 all'Ostseestadion di Rostock e si porta a quota 6 punti in classifica. Decide una rete dell'italo-tedesco Giovanni Federico ad un quarto d'ora dalla fine. Dopo 0 punti in 4 gare la panchina di Frank Pagelsdorf inizia a scottare.

Hertha - Wolfsburg 2:1 (1:0)
L'Herta Berlino strappa in extremis i 3 punti con un gol del nigeriano classe 1987 Solomon Okoronkwo, in rete all' 88mo minuto. Per il momentaneo 1-1 gli autori dei gol erano stati Pantelic per l'Herta e Dejagahper i Lupi.

Bremen - Frankfurt 2:1 (1:0)
Il Werder inanella il secondo successo consecutivo grazie alla vittoria nel match che nella scorsa stagione gli aveva negato la possibilità di giocarsi il titolo all'ultima giornata. L'1-0 del Werder è di Sanogo, alla seconda rete stagionale. Il 2-0 porta la firma di Petri Pasanen, mentre la rete del definitivo 2-1 è di Thurk.

Cottbus - Nürnberg 1:1 (1:0)
L'Energie Cottbus blocca sull'1-1 il Norimberga, ancora al terzultimo posto. Il vantaggio dei Lausitzer porta la firma del danese Dennis Sörensen. Il pareggio degli ospiti giunge all'85' con Wolf.

Hannover - Bochum 3:2 (2:1)
Il Bochum dice addio ai sogni di occupare la vetta alla pari con il Bayern con la sconfitta al Niedersachsenstadion, ora AWD-Arena. Il doppio vantaggio iniziale dell'Hannover porta la firma di Hanke e Rosenthal. Pareggio del Bochum con Bechmann, alla quarta rete stagionale, e Maltritz su rigore. A regalare i 3 punti ai Roten ci pensa l'iraniano Vahid Hashemian, al Bochum dal 2001 al 2004.

Karlsruhe - Stuttgart 1:0 (0:0)
Il Karlsruhe batte lo Stoccarda 1-0 con la terza rete in campionato del piccolo (solo 168 centimetri per lui) ungherese Tamas Hajnal. Il KSC si porta a quota 6 in classifica, gli uomini di Veh rimangono penultimi a quota 4.

sabato 1 settembre 2007

L'esodo azzurro

Il 9 Luglio 2006, ovvero un anno e cinquantaquattro giorni fa, Fabio Cannavaro alzava la Coppa del Mondo. Coppa del Mondo alzata da un italiano che giocava in Italia, come gli altri 23 componenti di quella squadra. L'unica altra squadra senza componenti estere a quel mondiale fu l'Arabia Saudita, non esattamente il Brasile.

Un anno fa, quindi, i migliori giocatori italiani militavano tutti in patria, salvo poi espatriare per vari motivi. Fabio Cannavaro e Gianluca Zambrotta lasciarono l'Italia alla volta, rispettivamente, di Madrid e Barcellona, ovviamente sulla sponda più nobile della città. Spagna che, comunque, era già abbastanza ricca di italiani, soprattuto grazie al Valencia di Ranieri, che portò sulle rive del Mediterraneo Lucarelli - 12 presenze ed 1 gol per lui nella stagione 98/99 - che fece presto ritorno in patria, dove trovò Amedeo Carboni, 312 partite in 9 anni con la maglia dei Ches. Con il ritorno di Ranieri a Valencia, nel 2004, arrivarono altri italiani: Fiore, Moretti, Di Vaio e Corradi, di loro il solo Moretti è tuttora al Valencia, dove è titolare della fascia sinistra della difesa. Gli altri tre sono andati via poco dopo: Fiore, dopo vari prestiti in Italia, è tornato definitivamente nella penisola per indossare la maglia del Mantova; Di Vaio, dopo una breve e negativa esperienza al Monaco (dove trascorse 6 mesi anche Bobo Vieri) si è accasato al Genoa, con cui ha ottenuto una promozione in A che nella città della lanterna mancava da dodici anni; Corradi, dopo aver trascorso una stagione in prestito a Parma, si è trasferito in Inghilterra, al Manchester City. Gli italiani abbondano anche sulla sponda rossoblu di Valencia, quella del Levante, dove, quest'estate, ne sono approdati ben tre, che andranno a far compagnia a Damiano Tommasi, che un anno fa decise di emigrare all'estero pur di non dover giocare contro la sua amata Roma restando in Italia. A fargli compagnia sono arrivati Storari e Riganò, due ex messinesi, e Bruno Cirillo, arrivato dall'AEK di Atene, dove era compagno di squadra di Sorrentino, che, stufo dell'esperienza greca (che gli aveva permesso anche di giocare in Champions League), ha deciso di emigrare in Spagna, al Recreativo di Huelva. Anche Abbiati, stufo dell'Italia, ha scelto la Spagna e si è accasato all'Atletico di Madrid. Altro portiere emigrato in Spagna è stato De Sanctis, che dopo aver rotto con l'Udinese utilizzando una nuova normativa Fifa si è accasato al Siviglia, dove milita dal 2005 Enzo Maresca, che aveva già giocato all'estero, al WBA, dal '98 al 2000. Il giocatore più importante andato in Spagna è, però, Giuseppe Rossi, assieme a Pazzini il più forte baby attaccante italiano, che ha accettato la corte del Villareal di Fernando Roig, impresario nel campo della ceramica.

Gli italiani all'estero, però, non vanno solo nell'assolata Spagna: nel Regno Unito ne troviamo ben tre: Cudicini, emigrato oltremanica nel '99, quando passò dal Castel di Sangro al Chelsea; Donati, al Celtic da questa stagione cui è stato affidato l'arduo compito di sostituire il nordirlandese Neil Lennon nel centrocampo dei Bhoys; Rolando Bianchi, costato 13 milioni di euro al neopresidente del Manchester City Shinawatra ed in gol al suo esordio con la maglia dei Blues. Fino a ieri c'era anche Bernardo Corradi tra le fila dei Blues, che però è tornato in patria al Parma annunciato da un terrificante "Corradi go home" sul sito della Gazzetta.

Due italiani anche in Francia: Fabio Grosso, acquistato dai sei volte campioni del Lione dopo una travagliata stagione con l'Inter e Flavio Roma, al Monaco - con cui ha anche disputato una finale di Champions, persa, contro il Porto, nel 2004 - dal 2001.

Italiani che non mancano anche nel resto dell'Europa: da Luca Toni, accasatosi al Bayern Monaco e secondo italiano in Germania dopo Ruggiero Rizzitelli, a Cristiano Lucarelli, allo Shakhtar Donetsk, in Ucraina, per 9 milioni al Livorno e 12 in 3 anni per lui.

Gli ultimi due partenti sono stati Graziano Pellè, all'AZ Alkmaar, in Olanda, perché stufo del calcio italiano, e Pelizzoli, al Lokomotiv Mosca, in Russia, dal gennaio 2007.

Adesso i migliori giovani ci lasciano perché stufi del nostro calcio, come nel caso di Pellè. E pensare che ai tempi di Bettega e Chinaglia si lasciava l'Italia solo per andare a guadagnare profumati dollari in America, nella NASL.