domenica 13 gennaio 2008

Il genio di Rosengård

Cinquantaduesimo minuto di Siena - Inter. Chivu, raddoppiato, serve il pallone a Zlatan Ibrahimović, che lo controlla e scarica un destro al fulmicotone nell'angolino alto alla sinistra dell'incolpevole Manninger. Capolavoro. Come quello datato 24 agosto 2004, quando si guadagna il premio per il miglior gol della Eredivisie dopo saltato sei giocatori del NAC Breda prima di depositare il pallone in porta. L'autore di questo è molto altro si chiama Zlatan Ibrahimović, e la sua storia ha inizio il 3 ottobre 1981 a Rosengård (pronuncia «Rùsengord»), ghetto situato nella periferia meridionale di Malmö, costruito tra il 1960 e il 1970 all'interno del Miljonprogrammet (“Programma del milione”) dal governo svedese. Zlatan (così è conosciuto in Svezia, dove fino a poco tempo fa non usava “Ibrahimović” neanche sulla maglia della nazionale) compra le prime scarpette da calcio, rosse, a 5 anni, in saldo a Skopunkten, negozio di scarpe. Oggi le scarpe sono arancioni, griffate Nike, con il nome di suo figlio impresso sopra. Maximilian, così si chiama l'erede di Ibra, è stato dato alla luce dalla sua compagna Helen Seger il 22 settembre 2006, giorno di nascita di Ronaldo, di cui Ibra era un grandissimo fan. E oltre che per Ronaldo, Zlatan da piccolo tifava anche per l'Inter, squadra per cui aveva scelto di fare il tifo all'estero giocando (quando il piccolo Ibra non giocava con la palla sceglieva per quale squadra tifare all’estero) con i suoi amici, su tutti Goran e Gagge. Macedone il primo, bulgaro «che toccava la palla come un brasiliano» con cui Ibra ha giocato anche nelle giovanili del Malmö oltre che nei campetti di Rosengård, il secondo. E proprio nei campetti del sobborgo di Malmö il piccolo Zlatan provocava le ire dei vicini, che spesso si lamentavano con Jurka, la mamma, perché il pallone del più piccolo degli Ibrahimović terminava nelle loro siepi. Mamma Jurka donna delle pulizie tanto orgogliosa da non voler tutt’oggi lasciare il lavoro, alla faccia dello stipendio milionario del figlio, è croata. Il papà è bosniaco, e si chiama Sefik. È a lui che ripetono che Zlatan «ha negli occhi una luce particolare, quella di chi ama il calcio», e di questo se ne accorge Hasib Klicic, allenatore della squadretta del FK Balkan, a cui è legata la prima leggenda di Ibra. Contro il Vellinge il già allora perticone svedese (ora è 1,92) è costretto alla panchina per via del suo pessimo carattere che lo porta spesso a litigare con compagni, dirigenti, allenatori e persino giornalisti (una volta un giornalista gli chiese il perché avesse dei graffi in faccia, «chedi a tua moglie» la risposta del gigante svedese). Sul 4-0 per gli avversari l’allenatore decide finalmente di far entrare in campo Ibra, che in 45 minuti ribalta il risultato segnando 8 gol. Gli avversari protestano: quel ragazzo è troppo grosso e bravo con il pallone per avere 12 anni, limite massimo della categoria. Si sbagliano, visto che Ibra ne ha due in meno, come dice il certificato di nascita. Tre anni dopo il Malmö si accorge di questo ragazzo che fa faville nella squadretta satellite del Balkan, e lo veste di blu. Nel 1999 debutta in Allsvenskan, ma al termine della stagione l’Himmelsblått retrocede in Superettan, la seconda divisione svedese. Ibra non ne fa un dramma, e riesce comunque a mettersi in mostra. Su di lui posano gli occhi gli osservatori della nazionale svedese, con cui parteciperà al Mondiale nippo-coreano nel 2002, e Arsène Wenger. L’alsaziano conosce bene i giovani, e per conquistare Ibra gli spedisce a casa un maglia dell’Arsenal numero 9 con “Zlatan” stampato sulle spalle. Lui declina l’offerta, ma la maglia ce l’ha ancora. Se lo aggiudica l’Ajax di Leo Beenhakker, che se ne era calcisticamente innamorato durante una tournée quando allenava il Real Madrid. Per 7,8 milioni di euro Ibra passa all’Ajax diventando così il calciatore svedese più pagato della storia. «Ciao ragazzi, io sono Zlatan, e voi chi cazzo siete?» è la sua frase di presentazione nello spogliatoio ajacide. Alla domanda rispondono un po’ tutti. Grygera e Chivu, che diventano suoi amici; Van der Vaart, che mal sopporta il fatto di avere qualcuno più bravo di lui in squadra e con cui vola anche qualche cazzotto; Mido, che grazie agli assist del fenomeno di Rosengård visse le migliori stagioni della propria carriera. Ed è proprio Mido - con cui condivide la grande passione per le auto (Ibra possiede un Porsche Cayenne Turbo, una Ferrari 360, un BMW X5 e nel 2003 ha guidato una Formula3000 al Pannonian Ring, in Ungheria) – a prendere quello che doveva essere il suo posto di attaccante in Italia. Alla Roma, infatti, lo aveva segnalato il compianto Nils Liedholm, che si sentì rispondere «Ma dove va uno con quel nome da zingaro?» dai Sensi. Capello fu così costretto ad aspettare un altro anno per averlo, ma alla fine lo portò in Italia. Nello stivale non riceve una bella accoglienza, visto il colpo di tae-kwon-do (arte marziale da lui praticata) con cui infilò Buffon agli Europei lusitani di quell’anno, ma sul campo fece innamorare di se chiunque amasse il calcio. Compreso Massimo Moratti, che sborsò la bellezza di 25 milioni di euro, per la precisione 24,8, per farlo suo nell’estate 2006. Poco dopo sarebbe nato Maximilian, il cui nome è impresso sulle scarpe numero 47 e mezzo di Ibra con il baffo Nike nero su sfondo arancione. Bella differenza dalle scarpette rosse comprate in saldo 21 anni fa da Skopunkten, quando Zlatan Ibrahimović non era ancora “il Genio”.
Antonio Giusto

Fonte: SportBeat