sabato 26 gennaio 2008

CalcioItalia diventa Calcio d'angolo



Dopo quasi un anno di vita CalcioItalia cambia nome, e diventa Calcio d'angolo. Il nuovo link è http://calciodangolo.blogspot.com/. Gradirei che chi mi ha linkato cambiasse il collegamento in Calcio d'angolo (ex CalcioItalia).

martedì 22 gennaio 2008

Il punto sulla serie A al termine del girone d'andata

Dopo 19 giornate è sempre la solita storia: l’Inter domina, le altre – forse è più corretto dire l’altra, visto che i due pareggi rimediati contro Samp e Catania hanno fatto capire alla Juventus che questo non sarà la prima volta di una neopromossa campione d’Italia – inseguono. La più vicina è la Roma, ad “appena” 7 punti dalla vetta, l’anno scorso distante 2 punti in più. Punti di distacco che sarebbero certamente inferiori, se solo la squadra di Spalletti imparasse che in porta non bisogna per forza entrare col pallone, visto che il tiro da fuori area è un’ottima opzione offensiva, soprattutto contro le squadre che si chiudono di più, e i tiratori da fuori ci sono anche in assenza di Aquilani. L’Arsenal ha dovuto perdere Henry per capirlo, ma ora è appaiato al Manchester United in vetta alla Premier League. Cosa impensabile per la Roma, almeno per quest’anno. Se i giallorossi come simbolo delle loro clamorose amnesie che gli costano parecchi punti hanno la partita con l’Empoli, penultimo, da cui si sono fatti riagganciare al 90’ da un’innocua punizione di Giovinco, per l’Inter parla l’ultimo match del girone d’andata, quello tanto discusso col Parma. In 5 minuti è passata dall’ 1-2 che sarebbe significato prima sconfitta del campionato, ad un 3-2 che significa “Noi siamo i più forti”, senza possibilità di controbattere. Poi c’è la Juve, che forse a furia di ripetersi che lo scudetto poteva diventare realtà aveva iniziato a crederci per davvero. A frenarla, però, gli ultimi due pareggi contro Sampdoria e Catania, buone squadra, ma nulla di più. E i punti di distanza dalla vetta, 10, sono il doppio di quelli sull’Udinese, 5.
A lottare per il quarto posto ci sono Fiorentina, Udinese e Milan. I rossoneri devono recuperare le partite con Atalanta, Livorno e Reggina prima di capire se è davvero possibile riagguantare la quarta posizione che significherebbe preliminari di Champions League. Per ora il trio d’attacco formato da Kaká, Ronaldo e Pato ha dato spettacolo solo contro il Napoli, dimostrandosi inadatto a scardinare la difesa dell’Udinese, sconfitta al Friuli solo grazie ad un clamoroso errore di Obodo che ha permesso a Gilardino, su splendido assist di Kaká servito a sua volta da Pato, di infilare Handanovic. L’Udinese, sconfitta dal Milan nello scontro diretto, sulla carta è quella con meno probabilità di arrivare in Champions League delle tre. Solo sulla carta, però. Mister Marino ha dimostrato di saperci fare, e con un Di Natale che sta vivendo la miglior stagione della propria carriera di fianco ad un Quaglierella finalmente a suo agio come punta centrale del tridente, tutto è possibile. E lo è ancor di più se a corredare il tutto ci sono giovani vogliosi di vittorie e tecnicamente validi come Zapata, Inler e Handanovic. Infine la Fiorentina, che se il campionato finisse ora affronterebbe ad agosto i preliminari di Champions per la prima volta, dopo averli persi in tribunale nelle ultime due stagioni. I Viola hanno in Mutu un giocatore eccezionale, a cui è stato più volte chiesto di sostituire anche Toni là davanti, visto che Pazzini non è ancora maturo al punto giusto per sobbarcarsi l’intero peso del reparto avanzato e Vieri (complimenti per il duecentesimo gol con una maglia italiana) non è più quello che faceva impazzire le difese avversarie quando indossava la maglia dell’Inter.
Per il posto in Uefa rimasto, sempre che in finale di Coppa Italia si affrontino due qualificate alla Champions League, sarà una dura lotta. Sampdoria, Genoa, Palermo e Napoli sono vicinissime in classifica, e potrebbero restarlo fino alla fine. La sfida più accesa sarà certamente quella tra le due squadre della città della Lanterna. Il Genoa, guidato da Borriello in campo e Gasperini in panchina, farebbe carte false pur di arrivare davanti ai cugini blucerchiati a fine campionato. La Samp però risponde con Bellucci e Cassano. Il primo, al ritorno in Serie A, sta dimostrando di aver perso tempo negli ultimi due anni in B con il Bologna. Il secondo, anche lui di nuovo in A dopo la tremenda esperienza spagnola, vuole conquistare un posto tra i 23 che, una volta terminato il campionato, faranno le valigie e partiranno alla volta del Portogallo. Aggiungiamoci che Mazzarri vuole gustare l’Europa, dopo il piccolo morso dello scorso anno, e i blucerchiati sembrano i contendenti più credibili. Il Palermo invece rischia di interrompere a breve il sogno-Uefa. La causa, ovvia, è Zamparini, che ha dimostrato più d’una volta di non gradire l’impegno nella seconda manifestazione continentale per club, e che si appresta a mandar di nuovo via Guidolin dopo il rocambolesco ko interno con il Siena. Poi c’è il Napoli, che promette di rinforzarsi entro la fine del calciomercato invernale con due uomini sulle fasce, che completerebbero alla grande il perfetto mosaico partenopeo. Aggiungiamoci il fatto che qui, a differenza di Palermo, è il presidente il primo a volere l’Europa e si capisce perché i tifosi napoletani possono sognare.
A parte l’Atalanta, che come organico è superiore alle altre, dal Catania in giù si trovano tutte invischiate nella per non retrocedere. Proprio gli etnei devono cercare di non ripetere la scorsa stagione, terminata in calando e in cui si assicurarono un’altra stagione in A solo all’ultima giornata con il Chievo. Poi c’è il Livorno, in serie positiva da ben 9 partite e che con Camolese in panchina ha decisamente cambiato marcia. Se continuano così, Spinelli a fine anno potrà lamentarsi di non aver raggiunto la Uefa per un pelo, invece che per la retrocessione. La Lazio, sulla cui stagione pesa come un macigno la campagna europea, dovrebbe farcela, visto l’organico decisamente superiore a quello delle altre contendenti. Segue il Parma, a 18 punti, in zona caldissima e a cui a fine anno la freschezza dei vari Cigarini, Gasbarroni e Dessena potrebbe non bastare. Lucarelli, però, è di un’altra opinione e potrebbe ripetere ciò che fece Giuseppe Rossi (che costava meno di Lucarelli anche se più giovane ma che non è stato trattenuto dai ducali) la scorsa stagione. Torino e Siena, appaiate a 17, sono nella zona caldissima. Se i granata hanno dalla loro una rosa che vale ben più della lotta per non retrocedere, i senesi rispondono con un cuore smisurato, come ha dimostrato l’ultima partita con il Palermo. A 17 c’è anche la Reggina, che però, vista la differenza reti, ora come ora sarebbe spacciata. I calabresi però sono stati bravi a non abbandonare quando molti l’avrebbero fatto, e gli acquisti di Brienza , Stuani e Cirillo possono davvero cambiare la stagione amaranto. Un punto più in basso c’è un’Empoli a cui la Coppa Uefa ha fatto davvero male. Perché è vero che la rosa non ha subito grandi modifiche, ma l’esonero di Cagni non ha cambiato nulla, ed ora Vannucchi & C. rischiano davvero. A 10 punti, desolatamente in fondo alla classifica, il Cagliari che senza Suazo ha dimostrato di essere una squadra che definire mediocre è poco. Senza il bomber honduregno la responsabilità di segnare è ricaduta su Matri e Acquafresca, 43 anni e 6 gol in due. O Ballardini fa qualcosa, o l’anno prossimo non ci sarà nessuna squadra a rappresentare la Sardegna in Serie A.
Antonio Giusto

Fonte: SportBeat

domenica 13 gennaio 2008

Il genio di Rosengård

Cinquantaduesimo minuto di Siena - Inter. Chivu, raddoppiato, serve il pallone a Zlatan Ibrahimović, che lo controlla e scarica un destro al fulmicotone nell'angolino alto alla sinistra dell'incolpevole Manninger. Capolavoro. Come quello datato 24 agosto 2004, quando si guadagna il premio per il miglior gol della Eredivisie dopo saltato sei giocatori del NAC Breda prima di depositare il pallone in porta. L'autore di questo è molto altro si chiama Zlatan Ibrahimović, e la sua storia ha inizio il 3 ottobre 1981 a Rosengård (pronuncia «Rùsengord»), ghetto situato nella periferia meridionale di Malmö, costruito tra il 1960 e il 1970 all'interno del Miljonprogrammet (“Programma del milione”) dal governo svedese. Zlatan (così è conosciuto in Svezia, dove fino a poco tempo fa non usava “Ibrahimović” neanche sulla maglia della nazionale) compra le prime scarpette da calcio, rosse, a 5 anni, in saldo a Skopunkten, negozio di scarpe. Oggi le scarpe sono arancioni, griffate Nike, con il nome di suo figlio impresso sopra. Maximilian, così si chiama l'erede di Ibra, è stato dato alla luce dalla sua compagna Helen Seger il 22 settembre 2006, giorno di nascita di Ronaldo, di cui Ibra era un grandissimo fan. E oltre che per Ronaldo, Zlatan da piccolo tifava anche per l'Inter, squadra per cui aveva scelto di fare il tifo all'estero giocando (quando il piccolo Ibra non giocava con la palla sceglieva per quale squadra tifare all’estero) con i suoi amici, su tutti Goran e Gagge. Macedone il primo, bulgaro «che toccava la palla come un brasiliano» con cui Ibra ha giocato anche nelle giovanili del Malmö oltre che nei campetti di Rosengård, il secondo. E proprio nei campetti del sobborgo di Malmö il piccolo Zlatan provocava le ire dei vicini, che spesso si lamentavano con Jurka, la mamma, perché il pallone del più piccolo degli Ibrahimović terminava nelle loro siepi. Mamma Jurka donna delle pulizie tanto orgogliosa da non voler tutt’oggi lasciare il lavoro, alla faccia dello stipendio milionario del figlio, è croata. Il papà è bosniaco, e si chiama Sefik. È a lui che ripetono che Zlatan «ha negli occhi una luce particolare, quella di chi ama il calcio», e di questo se ne accorge Hasib Klicic, allenatore della squadretta del FK Balkan, a cui è legata la prima leggenda di Ibra. Contro il Vellinge il già allora perticone svedese (ora è 1,92) è costretto alla panchina per via del suo pessimo carattere che lo porta spesso a litigare con compagni, dirigenti, allenatori e persino giornalisti (una volta un giornalista gli chiese il perché avesse dei graffi in faccia, «chedi a tua moglie» la risposta del gigante svedese). Sul 4-0 per gli avversari l’allenatore decide finalmente di far entrare in campo Ibra, che in 45 minuti ribalta il risultato segnando 8 gol. Gli avversari protestano: quel ragazzo è troppo grosso e bravo con il pallone per avere 12 anni, limite massimo della categoria. Si sbagliano, visto che Ibra ne ha due in meno, come dice il certificato di nascita. Tre anni dopo il Malmö si accorge di questo ragazzo che fa faville nella squadretta satellite del Balkan, e lo veste di blu. Nel 1999 debutta in Allsvenskan, ma al termine della stagione l’Himmelsblått retrocede in Superettan, la seconda divisione svedese. Ibra non ne fa un dramma, e riesce comunque a mettersi in mostra. Su di lui posano gli occhi gli osservatori della nazionale svedese, con cui parteciperà al Mondiale nippo-coreano nel 2002, e Arsène Wenger. L’alsaziano conosce bene i giovani, e per conquistare Ibra gli spedisce a casa un maglia dell’Arsenal numero 9 con “Zlatan” stampato sulle spalle. Lui declina l’offerta, ma la maglia ce l’ha ancora. Se lo aggiudica l’Ajax di Leo Beenhakker, che se ne era calcisticamente innamorato durante una tournée quando allenava il Real Madrid. Per 7,8 milioni di euro Ibra passa all’Ajax diventando così il calciatore svedese più pagato della storia. «Ciao ragazzi, io sono Zlatan, e voi chi cazzo siete?» è la sua frase di presentazione nello spogliatoio ajacide. Alla domanda rispondono un po’ tutti. Grygera e Chivu, che diventano suoi amici; Van der Vaart, che mal sopporta il fatto di avere qualcuno più bravo di lui in squadra e con cui vola anche qualche cazzotto; Mido, che grazie agli assist del fenomeno di Rosengård visse le migliori stagioni della propria carriera. Ed è proprio Mido - con cui condivide la grande passione per le auto (Ibra possiede un Porsche Cayenne Turbo, una Ferrari 360, un BMW X5 e nel 2003 ha guidato una Formula3000 al Pannonian Ring, in Ungheria) – a prendere quello che doveva essere il suo posto di attaccante in Italia. Alla Roma, infatti, lo aveva segnalato il compianto Nils Liedholm, che si sentì rispondere «Ma dove va uno con quel nome da zingaro?» dai Sensi. Capello fu così costretto ad aspettare un altro anno per averlo, ma alla fine lo portò in Italia. Nello stivale non riceve una bella accoglienza, visto il colpo di tae-kwon-do (arte marziale da lui praticata) con cui infilò Buffon agli Europei lusitani di quell’anno, ma sul campo fece innamorare di se chiunque amasse il calcio. Compreso Massimo Moratti, che sborsò la bellezza di 25 milioni di euro, per la precisione 24,8, per farlo suo nell’estate 2006. Poco dopo sarebbe nato Maximilian, il cui nome è impresso sulle scarpe numero 47 e mezzo di Ibra con il baffo Nike nero su sfondo arancione. Bella differenza dalle scarpette rosse comprate in saldo 21 anni fa da Skopunkten, quando Zlatan Ibrahimović non era ancora “il Genio”.
Antonio Giusto

Fonte: SportBeat

giovedì 10 gennaio 2008

Tamudo e il miracolo Espanyol

Ho richiesto all'amico Valentino Tola, curatore di CalcioSpagnolo, di scrivere un'analisi della squadra di moda del momento, cioè l' Espanyol, da collegare all'articolo su Tamudo, protagonista della settimana. Potete trovare l' articolo su Sportbeat , ecco il link, ma comunque pubblico tutto di seguito, l'analisi di Valentino ed il mio pezzo.

ANALISI ESPANYOL

di Valentino Tola

A Montjuic si sogna: quattordicesimo risultato utile consecutivo (sedicesimo se si aggiungono le due partite degli ottavi, superati, di Copa del Rey con il Deportivo), 29 gol fatti (sesto attacco dietro Real Madrid, Barça, Sevilla, Atlético e Villarreal), 19 subiti (terza miglior difesa dopo Barça e Real Madrid, a pari merito con Racing e Atlético), 36 punti, terzo posto in piena zona Champions, a –8 dal Madrid capolista ma soprattutto a un solo punto di distanza dai rivali cittadini del Barça (coi quali ultimamente è stato rotto ogni rapporto diplomatico, a causa dell’ ostilità fra i due presidenti Sanchez Llibre e Laporta). Solo nel ‘95-’96, a questo punto della stagione, cioè alla diciottesima giornata, l’ Espanyol aveva saputo fare meglio con un secondo posto a –4 dalla capolista Atlético Madrid (a fine stagione invece i biancoblu allora allenati da Camacho si piazzarono quarti).
Certo, sarà difficilissimo riuscire a strappare una qualificazione alla Champions che avrebbe tutto il sapore del miracolo: l’ Atlético e pure il Villarreal raso al suolo sabato scorso hanno delle carte in più dal punto di vista tecnico, per tacere del Sevilla già pronto a rientrare nella mischia. Però la forza dell’ Espanyol risiede nella forte consapevolezza: pochi meglio del team di Valverde sanno quali sono i propri punti di forza e i propri limiti, gli undici in campo si muovono sempre con punti di riferimento chiari, giocano a memoria e con una fiducia in loro stessi ulteriormente accresciuta da dati come le due sole sconfitte accusate finora (Valladolid alla prima giornata, Recreativo alla quarta, in un avvio di stagione deludente anche sul piano del gioco), statistica condivisa col solo Real Madrid. Successi che affondano comunque le proprie basi già nella scorsa stagione, soprattutto nella splendida quanto sfortunata cavalcata in Coppa Uefa, successi ottenuti con limitate risorse economiche (in caso di qualificazione alla Champions sarebbe difficile allestire una squadra pienamente competitiva sui due fronti, e anzi la prima eventualità da affrontare in sede di mercato resta sempre quella di cessioni eccellenti) e facendo un gran lavoro sulla cantera: nella rosa attuale, 10 giocatori vengono dalla cantera e 17 sono gli spagnoli.

Il merito di tanta efficienza e maturità va in primo luogo a Ernesto Valverde, tecnico fra i più preparati della nuova leva spagnola, assieme ai vari Marcelino, Mendillibar ed Emery. Il 43enne “Txingurri” (che in basco significa “formica”, soprannome che si porta dietro dai tempi in cui giocava nell’ Athletic) si sta consacrando sulla panchina espanyolista, fino a suscitare le voci di un interesse del Barça per affidargli il dopo-Rijkaard.
Rispetto agli inizi, la sua filosofia di gioco si sta evolvendo e modificando: se il suo Athletic lo si ricorda come una squadra dalla mentalità e dallo stile di gioco piuttosto offensivo e arioso (cosa che ha suscitato infatti le critiche a scoppio ritardato e completamente assurde del profeta dell’ anticalcio Javier Clemente), manovrato e con costanti sovrapposizioni dei terzini, ora all’ Espanyol predilige un calcio più verticale, sviluppato di rimessa e in pochi tocchi, dove a partecipare all’ azione offensiva e a concludere sono prevalentemente i 4 uomini offensivi, sguinzagliati negli spazi della metacampo avversaria: Riera è l’ elemento più talentuoso, quello incaricato di condurre l’ azione palla al piede sulla trequarti (cercando non solo il fondo ma spesso e volentieri anche le zone interne), Tamudo è la prima punta che cerca la profondità e coi suoi movimenti si occupa di allungare la difesa avversaria e favorire così gli inserimenti a rimorchio di Valdo dalla destra ma soprattutto di Luis Garcia, seconda punta che si muove in una posizione strategica fra le linee, posizione che crea sempre qualche problema nelle marcature alle difese. La tremenda efficacia realizzativa dell’ attacco è sicuramente uno dei punti di forza principali, quasi una prerogativa da grande squadra questa quando permette di vincere con poco sforzo anche partite non brillantissime. E non a caso Aragones ha pescato a piene mani, convocando sia i “gemelli del gol” Luis Garcia e Tamudo sia lo straripante Riera di questo girone d’ andata.
Transizioni rapide e mortifere quelle dell’ Espanyol, seconde per pericolosità e “impatto scenico” soltanto a quelle del Sevilla, transizioni che acquisiscono ora ancor più imprevedibilità col ritorno a pieno regime di De la Peña, la cui impareggiabile chiaroveggenza nell’ ultimo passaggio permette di smarcare in un amen gli attaccanti davanti al portiere avversario.
Uno dei grandi meriti di Valverde è stato proprio quello di aver trovato finalmente la posizione ideale a “Lo Pelat”: se prima della scorsa stagione la collocazione tattica di questo giocatore era stata un vero rompicapo per ogni allenatore, e la tendenza generale era quella di schierare De la Peña dietro un solo attaccante (per limitare anche gli effetti della sua scarsa fase difensiva), Valverde ha capito che per valorizzare al massimo le qualità di De la Peña occorre ampliarne il più possibile le opzioni di passaggio: schierato centrale di centrocampo accanto a un “pivote” difensivo come Moisés Hurtado, il cantabro non ha compromesso gli equilibri della squadra in fase di non possesso (si sforza di dare una mano in copertura, perlomeno tenendo la posizione), ma anzi ne ha reso micidiale l’ azione d’ attacco, perché in questo ruolo De la Peña dispone ogni volta di quattro opzioni di passaggio, ciò che consente transizioni così profonde e problematiche per l’ avversario, soprattutto quando hanno origine da una palla rubata a centrocampo.
Un po’ più fatica, pur non trovandosi completamente a disagio e pur avendo buona ampiezza sugli esterni, l’ Espanyol la fa invece quando non può andare subito in verticale ed è costretto a cominciare l’ azione da dietro per attaccare difese schierate. Prova indiretta di ciò è il ruolino magistrale contro le grandi del campionato e in trasferta, le situazioni cioè nelle quali i biancoblu possono meglio sviluppare il loro gioco di rimessa: vittorie contro Valencia, Sevilla, Real Madrid, Villarreal e Atlético, squadra più prolifica fuori casa con ben 18 gol all’ attivo.
Quello di Valverde non è un 4-4-2 classico perché le due punte non partono sulla stessa linea, ma irrinunciabili restano le classiche due linee da 4 di difesa e centrocampo in fase di non possesso: forte di meccanismi molto oliati, con distanze ravvicinatissime fra i reparti e raddoppi puntuali in ogni zona del campo, l’ Espanyol restringe gli spazi all’ avversario, lo costringe al gioco orizzontale e a sguarnirsi per poi forzarne la perdita del pallone e da lì lanciare verticalizzazioni fulminee: al di là dell’ altezza della linea difensiva (generalmente abbastanza avanzata, col portiere che funge da libero aggiunto se necessario) o del grado di intensità del pressing, che variano a seconda dell’ avversario (ad esempio Real Madrid e Villarreal son state “matate” col pressing alto, mentre al Mestalla e al Sanchez Pizjuan l’ Espanyol si era difeso più basso nella sua metacampo), la base del calcio di Valverde resta questa, si predilige un “contro-gioco” diretto e mai troppo elaborato, solido, aggressivo ed estremamente pratico.


----------------------Kameni-------------------------

Zabaleta----Torrejon-----Jarque-------David Garcia

----------------Moisés----De la Peña----------------
--Valdo--------------------------------------Riera--

--------------------Luis Garcia-----------------------
-----------------------Tamudo-----------------------

Altri giocatori. Portieri: Lafuente, Kiko Casilla. Difensori: Chica, Lacruz, Clemente Rodriguez, Serran. Centrocampisti: Angel, “Lola” Smiljanic, Moha, Rufete. Attaccanti: Coro, Jonathan Soriano.
Classifica marcatori (18esima giornata): Tamudo 10 gol; Luis Garcia 5; Riera, Valdo 3; Angel 2; Zabaleta, Coro, Jarque, Jonathan Soriano 1.


DIFESA
Kameni punto fermo da anni, ormai abbiamo imparato anche a familiarizzare con i suoi “estri”. Con riflessi impressionanti e slanci di agilità portentosi in alcune occasioni, in altre mostra una concezione naif del suo ruolo che ha dello sconcertante, tipo quella volta in cui uscì per mettere palla in fallo laterale e rimase ad aspettare fuori dalla sua area finchè l’ avversario non rimetteva in gioco… Ora però il camerunese, richiamato per la Coppa d’ Africa, saluterà la compagnia per qualche tempo, lasciando la porta a Lafuente, uomo fidato di Valverde, che già lo ha allenato all’ Athletic, ma non tanto fidato per chi, primi fra tutti i tifosi dei Leoni, ne ha ammirato le frequenti incertezze.
Parlando del reparto arretrato, d’ obbligo sottolineare la costante e impetuosa crescita di Zabaleta, sempre più giocatore vero il 22enne argentino, per rendimento secondo solo a Sergio Ramos in questa Liga nel ruolo di terzino destro (ormai il suo ruolo stabile, dopo le peregrinazioni fra fascia destra e centro della mediana). Contributo dinamico impagabile (sulle orme di Javier Zanetti), l’ ex San Lorenzo sta maturando a vista d’ occhio sul piano tattico, sempre più affidabile difensivamente. Si attacca al diretto avversario, cerca di non metterlo mai in condizione di girarsi, è aggressivo, reattivo e cerca costantemente l’ anticipo, interpreta la partita con grinta e totale dedizione alla causa. Propone con buona frequenza la sovrapposizione per portare via l’ uomo al suo compagno di fascia, il suo apporto all’ azione offensiva è discreto, anche se la pericolosità delle sue incursioni non è elevatissima, mancandogli un po’ di qualità nel tocco di palla.
La coppia di centrali è consolidata e ben amalgamata sin dall’ anno scorso, la formano i due canterani Dani Jarque e Marc Torrejon. Si fanno apprezzare per la sobrietà, il senso della posizione, il gioco aereo, la concentrazione e il buon tempismo, ma possono andare in difficoltà presi in velocità (soprattutto il 21enne Torrejon, dall’ alto del suo 1,87x87 kg) da attaccanti rapidi che scattano in profondità o che cercano di portarli fuori zona spostandosi verso le fasce.
Il primo e finora unico cambio per i centrali (dato che il canterano Serran non ha ancora toccato il campo) è Lacruz, altra vecchia conoscenza di Valverde ai tempi dell’ Athletic, difensore versatile (all’ occorrenza anche terzino destro molto bloccato), tutt’ altro che irresistibile sul piano tecnico e atletico, ma esperto e tatticamente abbastanza avveduto.
Dopo una lunga sequela di infortuni, a sinistra è tornato titolare David Garcia, espanyolista da sempre, la cui diligenza tattica è sicuramente superiore a quella di Clemente Rodriguez, terzino dalle lacune difensive paurose. Rapido e ficcante anche se un po’ confusionario sul piano offensivo, viene invece da mettersi le mani nei capelli quando in fase di non possesso abbandona allegramente la sua zona cercando improbabili anticipi e lasciando voragini alle sue spalle. Se nel Boca la sua spinta si rivelava importante, in Catalogna pesa di più in negativo la sua insipienza tattica, essendo l’ Espanyol una squadra che basa il suo gioco soprattutto sull’ ordine difensivo e su rapide verticalizzazioni, azioni che per definizione tendono ad escludere un apporto costante e significativo in sovrapposizione da parte dei terzini.
Come alternativa per le due fasce Chica, altro canterano: lanciato come titolare fisso a sinistra l’ anno scorso, quest’ anno trova poco spazio. Giustamente, perché le doti di questo 22enne destro naturale sono oggettivamente modeste, al massimo si può apprezzarne l’ umiltà e l’ impegno.

CENTROCAMPO
Prima del rientro di De la Peña, Valverde optava per due mediani di quantità, uno più basso sempre a protezione della difesa, l’ altro dal raggio d’ azione più ampio, incaricato anche di accompagnare l’ azione offensiva, con licenza di tentare la conclusione da fuori.
La prima casella la copre quasi indiscutibilmente Moisés Hurtado, scommessa vincente di Valverde lo scorso anno, il classico centrocampista difensivo poco appariscente ma fondamentale perché la squadra mantenga le distanze giuste tra i reparti. Accanto a lui in assenza di De la Peña si muoveva prevalentemente il canterano classe ’86 Angel, giocatore concreto e di buon rendimento, efficace in entrambe le fasi del gioco, dinamico e continuo nel pressing, ordinato e senza fronzoli nella costruzione del gioco, in possesso anche di un discreto destro da fuori (bello e importante ad esempio il gol al Sanchez Pizjuan). Angel che ha avuto finora più minuti del giovane serbo Smiljanic, elemento di ottime prospettive, centrocampista di quantità e qualità finora intravista solo a sprazzi (significativa soprattutto la prestazione cntro il Real Madrid).
A sinistra, Riera è l’ opzione d’ obbligo quando serve sfondare le linee nemiche palla al piede: quando l’ Espanyol ha più spazi per il contropiede nella metacampo avversaria, l’ex maiorchino ama anche cercare gli spazi centrali, quando invece occorre dare ampiezza alla manovra, il compito di Riera è quello di guadagnare il fondo.
Cambia poco, perché l’ avversario viene comunque superato: il ragazzo è letteralmente in stato di grazia, alla vera e agognata consacrazione. Nessuno ha mai messo in dubbio il talento di questo mancino, sin da quando Aragones lo lanciò al Mallorca, ciò che ora fa veramente la differenza è la convinzione, la maturità raggiunta dal giocatore, pienamente conscio della propria importanza e dell’ impatto che può avere su un match: emblematico il derby col Barça, dove Puyol a uomo gli ha reso la vita difficilissima, ma nel quale comunque Riera ha saputo essere determinante alla prima occasione in cui è sfuggito al suo marcatore, ispirando il pareggio di Coro.
Grande abilità tecnica, repertorio di dribbling ampio e raffinato, Riera ha un fisico atipico per un uomo di fascia (1,88x83), un fisico robusto e prestante che lo rende difficile da contrastare nel corpo a corpo quando prende velocità e distende la sua falcata potente ed elegante. Resistente, aiuta con buona costanza il terzino in ripiegamento e vede bene la porta, avendo ottima coordinazione quando va al tiro, anche al volo e incrociando da posizioni defilate. Rispetto agli inizi poi cerca la profondità senza palla con maggiore frequenza e decisione. Alternativa affidabile a Riera è il marocchino Moha, esperto e sperimentato 30enne sicuramente meno talentuoso del titolare, ma che ha nel baricentro basso, nella rapidità e nel dinamismo delle buone carte da giocare.
A destra, assente la “vecchia carretta” Rufete (infortunatosi in pretemporada e solo da poco tornato disponibile), la fascia è diventata tutta di Valdo (anche seconda punta), 27enne dalle ottime qualità non sempre mostrate con la dovuta continuità, comunque sicuramente positivo finora in questa sua esperienza catalana. Giocatore che abbina corsa, eleganza e agilità ad ottime doti di palleggio, capace di sfoderare slalom niente male, gli manca forse un po’ di cattiveria e di personalità nelle contese più aspre.

ATTACCO
Il regno di Tamudo: 10 gol in questa Liga, 123 totali, massimo cannoniere nella storia dell’ Espanyol, bandiera intoccabile (si era tremato però quest’ estate quando erano uscite voci di una trattativa col Villarreal). Il suo fisico è abbastanza banale, la velocità media, le doti tecniche ampiamente sufficienti ma non certo quelle del Van Basten di turno, la sua forza sta tutta nella combinazione di opportunismo, intelligenza tattica e astuzia da gran figlio di buona donna (memorabile questo gol nella finale di Copa del Rey del 2000). Un maestro nel cercarsi lo spazio, muovendosi fra i due centrali o allargandosi negli spazi alle spalle dei terzini, rapinoso negli ultimi metri.
Luis Garcia è un complemento perfetto, giocatore completo, bravo con e senza palla: fra le linee offre l’ appoggio al centrocampo e si muove a supporto di Tamudo, ma è pericoloso anche quando va a concludere in prima persona, ha coordinazione e buon istinto. Controllo di palla molto pulito, ha un destro potente e preciso, se ha spazio al limite dell’ area trova facilmente l’ angolo, ed è uno degli specialisti più abili del campionato su calcio piazzato.
Jolly fra trequarti e attacco (seconda punta ma anche esterno su tutte e due le fasce) è Ferran Corominas detto “Coro”, particolarmente utile a partita in corso, rapido sul breve, legge bene l’ azione negli ultimi metri, trova il gol inserendosi a fari spenti in area di rigore. Già nel pantheon dei tifosi per il gol alla Real Sociedad che in pieno recupero evitò la retrocessione nella Liga 2005-2006, sembra però abbia già un accordo con il Mallorca per la prossima stagione.
Conta invece poco o nulla per Valverde Jonathan Soriano, non all’ altezza in quel ruolo di bomber di scorta che Pandiani ricoprì magistralmente la passata stagione: dovrebbe partire in questa sessione di mercato invernale, e si è già fatto un nome pesante come quello di Fred del Lione per la sua eventuale sostituzione.
Valentino Tola



TAMUDO PROTAGONISTA DEL MIRACOLO
di Antonio Giusto

Prima un destro preciso a tu per tu con Viera, poi il marchio di fabbrica: il colpo di testa, per battere nuovamente Viera con la complicità di Cani (che lo tiene in gioco) e Angel (che lo marca… per modo di dire). Basterebbero queste poche parole per descrivere Raúl Tamudo Montero, 30enne attaccante dell’Espanyol. Ma va aggiunto anche che con il secondo gol segnato ieri sera al Villareal è il numero 123 in carriera, con cui raggiunge Fernando Morientes al secondo posto tra i marcatori spagnoli in attività. Il primo è Raul, che con Tamudo condivide anno di nascita, il 1977, altezza, 1 metro e 80, e occupazione, che per entrambi è quella di essere il capitano-bandiera della propria squadra. Bandiera perché Tamudo, originario di, è recordman di gol – 123, superato da tempo il record di 112 di Rafael Marañón – e, quasi, visto che gliene manca ancora una per agganciare Argilés, di presenze.
Tamudo inizia a giocare a calcio in una squadra del suo paese l’Escuela Wagner, dove resta per un solo anno. Poi tre anni nel Fórum e il passaggio, nel 1989, al Milan de Sta. Coloma, dove resta fino ai 15 anni, quando l’Espanyol se lo aggiudica per sei palloni ed una partita amichevole. Il 23 marzo 1997 esordisce nella Liga al 59° minuto di Hércules-Espanyol sul punteggio di 1-1. Si dà immediatamente da fare e, a pochi minuti dal termine, trova il 2-1 decisivo. Segna un altro gol ed poi si ritrova di nuovo all’Espanyol B. Trail 1998 e il 1999 Tamudo disputa le sue uniche due stagioni senza la maglia dell’Espanyol, all’Alaves ed al Leida. Dopo questi mesi passati a farsi le ossa in Segunda Division, ritorna all’Espanyol, che però rischia di lasciare nel 2000. Dopo le Olimpiadi, in cui la Spagna arriva seconda, a lui si interessano i Rangers. L’Espanyol accetta, ma durante le visite mediche viene fuori un problema provocato a Tamudo da Pierre Wome, che sarà poi suo compagno di squadra all’Espanyol. Tamudo quindi resta ai periquitos, dove nel 2006 bissa il successo in Coppa del Re. Tempo un anno, e Tamudo batte il record di gol di Marañón proprio nel derby con il Barça il 9 giugno, quando con una doppietta raggiunge quota 113 gol. Adesso è a 123, ma non sembra affatto intenzionato a fermarsi, visto che prima di appendere gli scarpini al chiodo vuole ancora compiere due imprese: segnare un tripletta, cosa che non gli è mai riuscita tra i professionisti, e portare in Champions League il suo Espanyol.
Antonio Giusto

Fonte
: SportBeat

sabato 29 dicembre 2007

Milan, i 60 milioni di Ronaldinho spendili per la difesa



Il tormentone-Ronaldinho va avanti da mesi, e negli ultimi tempi si è arrivati ad ipotizzare un'offerta di 60 milioni per il Gaucho. 60 milioni per affiancare Ronaldinho a Kaká, mandando in panchina due tra Seedorf, Ambrosini, Inzaghi e Gilardino. Perché? Non chiedetelo a me. Fossi in Berlusconi, rinforzerei la difesa, in età pensionabile, anziché l'attacco. E il più grande problema del Milan, per quanto riguarda la difesa, è Nelson Dida, che nel derby ha dato prova, l'ennesima, che quello visto a Manchester contro la Juve, nel 2003, era solo un bel sogno. La realtà è che Dida non può più giocare a questi livelli, e per sostituirlo ci vuole qualcuno all'altezza. Il mercato non offre molto, e io restringerei l'attenzione su due nomi: Frey, che una grande la merita dai tempi del Parma, e Marco Amelia, che non può restare tutta la vita a lottare per salvarsi con il modesto Livorno. Il primo, pezzo pregiato della Viola, costa circa 15 milioni di euro, e i Della Valle non lo tratterrebbero se il francese scegliesse il Milan. Il secondo, che Spinelli cederà per far cassa ora o a giugno, costa un milione in meno, ma è più giovane. Questo sarebbe un modo per investire 15 di quei 60 milioni, ne restano altri 45, che non sono bruscolini. 6 potrebbero venir dati all'Udinese per uno tra Zapata e Felipe, valutati più o meno alla stessa maniera. Io preferirei il primo, più giovane e fisicamente devastante. E, a proposito di fisici devastanti, a Manchester, sponda City, sta venendo su, e anche piuttosto bene Micah Richards, anni: 19. Almeno 10 milioni, forse anche 15, Shinawatra li vorrebbere, ma il 19enne già nel giro della nazionale inglese li vale tutti. Due nomi per la porta e tre per il centro della difesa, ma al Milan i problemi maggiori ci sono sulle fasce, dove, a parte Oddo e Jankulosvki, gli altri dovrebbero essere da tempo a godersi ciò che hannp guadagnato in tanti anni di onorata carriera. Un nome su tutti, quello di Daniel Alves, che lascerà il Siviglia in maniera trionfale, almeno così ha promesso, al termine della stagione. Costa 25 milioni. Il budget ormai è quasi esaurito, ma un altro acquisto economico - rispetto agli altri - lo si può ancora fare. Parlo di Juan Manuel Vargas, 24enne terzino destro peruviano del Catania, che costa circa 8 milioni. E se un pensierino l'anno scorso ce l'aveva fatto il Real, potrebbe farcelo anche il Milan.

lunedì 24 dicembre 2007



Buon Natale, lettori di CalcioItalia!

venerdì 21 dicembre 2007

Champions League: sorteggio ottavi

Conclusi i sorteggi degli ottavi di Champions League, e non si può certo dire che alle italiane sia andata bene. Il Milan, campione in carica, ha visto uscire dall’urna l’avversario più ostico che le potesse capitare: l’Arsenal dei giovani, secondo proprio perché nelle ultime due gare del girone ha mandato in campo ragazzi troppo giovani. L’Inter, che deve dimostrarsi carro armato anche fuori dai confini italici, si è ritrovato contro un Liverpool che può essere quello capace di perdere 2-1 ad Istanbul col Besiktas e 0-1 ad Anfield con il Marsiglia o la macchina da 16 gol nelle ultime tre, decisive, partite del girone. E, a giudicare da quanto fatto vedere negli ultimi anni, ovvero che il Liverpool è, assieme al Milan, la miglior squadra in europea sui 180 minuti, si tratterà della squadra cinica e concreta ammirata quando la posta in palio contava,. La Roma, certamente la più sfortunata, ha trovato un Real Madrid contro cui dovrà cercare di ripetere l’impresa della Virtus, squadra di basket capitolina vittoriosa ieri proprio contro i madrileni.
Analizziamo meglio gli incontri, però. Il Milan non ha bisogno di particolari dilungamenti sulle sue imprese nei match ad eliminazione diretta, basta aggiungere ai 18 trofei in bacheca che ne fanno la prima squadra al mondo il fatto che l’anno scorso furono proprio i rossoneri ad alzare la tanto ambita coppa con le orecchie, mimata proprio da Fabregas, avversario del Milan negli ottavi, in occasione di un gol nella fase a gironi. E quel gesto significa che l’Arsenal, in finale nel 2006, vuole quella coppa, e poco importa se contro si trova Slavia Praga o Milan, bisogna spazzarli via tutti e due, senza fare particolari distinzioni di forza. Certo è, però, che Gallas & co. Dovranno fare i conti con il Pallone d’oro e Fifa World Player 2007 Kaká.
L’Inter, dal canto suo, non può certo ritenersi fortunata. Il Liverpool è giunto in finale due volte negli ultimi tre anni, in mezzo l’eliminazione subita nel marzo 2006 dal Benfica, quando Simao e Miccoli sbancarono Anfield e si qualificarono per i quarti. Se l’Inter dovesse trovarsi di fronte quel Liverpool e non quella cinica macchina da gol ammirata nelle ultime tre giornate della fase a gironi, il passaggio ai quarti è quasi certo.
La Roma è però l’italiana con meno speranze di passare: il Real di Robinho, dalla Coppa America ad oggi probabilmente il miglior giocatore al mondo assieme a Fabregas e Ibrahimovic, vuole mettere in bacheca la decima Coppa dei Campioni/Champions League della propria storia, e per farlo deve passare sul cadavere della Roma. Roma che però a Madrid ha già vinto, era la fase a gironi, era il 2003, ma i 3 punti al Bernabeu arrivarono per mano, o per meglio dire “per piede”, di Francesco Totti, unico reduce, assieme a Panucci, di quella magica notte di ottobre.
Real escluso, alle altre iberiche è andata di lusso. Il Barça si è visto recapitare un cioccolatino biancoverde di nome Celtic, che, salvo miracoli in terra di Scozia, è destinato a tornare nei confini scozzesi fino al termine della stagione.
Neppure al Siviglia, deludente in campionato ma ottimo in Europa, è andata male. Il Fenerbahce non è poi un avversario tanto temibile, soprattutto fuori casa. Sul Bosforo invece la squadra di Zico ha inflitto tre KO, nell’ordine, ad Inter, PSV e CSKA Mosca.
Il Porto completa il trio di iberiche felici, visto che dall’urna è uscito lo Schalke, avversario alla portata dei lusitani, dimostratisi squadra solida nel girone eliminatorio e che non dovrebbe avere problemi contro il peggior attacco, a pari merito (?) con quello del Celtic tra le squadra qualificate agli ottavi. Appena 5 reti per gli uomini di Mirko Slomka, appena due nelle prime 5 giornate del girone eliminatorio.
Completano gli ottavi di finale Olympiacos-Chelsea e Lione-Manchester United. Se ne primo caso gli uomini di Grant non dovrebbero aver problemi ad eliminare la sopresa della fase a gironi, tra Manchester United e Lione sarà sfida vera, perché se da un lato Aulas vuole come minimo i quarti dopo la deludente eliminazione agli ottavi contro la Roma lo scorso anno, gli inglesi si stanno ancora rodendo le mani per l’occasione sprecata l’anno scorso, quando si fecero rimontare dal Milan il 3-2 maturato ad Old Trafford. La parola ai piedi di Benzema e Cristiano Ronaldo qui, di tutti gli altri campioni che faranno la loro comparsa sul palcoscenico, calcisticamente parlando, più importante in Europa, per le altre partite.
Antonio Giusto



Fonte: SportBeat

lunedì 17 dicembre 2007

Gollas importanti


Gallas festeggiato da Sagna ed Eboué. PA


Un colpo di testa per fermare il Chelsea e portare l’Arsenal di nuovo in vetta. Opera di Adebayor? No, di William Gallas, tra l’altro ex del match. Sì, perché quando al 45’ del primo tempo Cesc Fabregas ha calciato un corner dalla sinistra, il più lesto ad approfittare dell’errore di Cech è stato lui, difensore con numero di maglia e vizio del gol da attaccante. Gallas, infatti, sulla maglia porta un 10 praticamente mai visto sulle spalle di un difensore. L’idea venne a Wenger quando Gallas, appena arrivato ai Gunners, trovò il suo classico 3 occupato e il tecnico francese pensò bene di affidargli il 10 appena lasciato libero da Dennis Bergkamp per non responsabilizzare eccessivamente un attaccante e far risaltare un po’ Gallas, il cui sogno da piccolo doveva però essere quello di vestire un altro numero, magari quello di Jean Tigana, a cui gli amici lo paragonavano da piccolo, quando Gallas, nativo di Asnières-sur-Seine ma trasferitosi quasi subito nella vicina Villeneuve-la-Garenne, passava le giornate a giocare con un pallone, poco importava se fosse da calcio o da baseball. Il piccolo William, però, era troppo preso dallo sport e questo gli costò qualche problema con la scuola, dove fu rimandato in sesta (la scuola in Francia è strutturata diversamente) e dovette affrontare le ire di suo papà, originario di Sainte-Anne, Guadalupa. Detto che Gallas ama il calcio, non si è ancora accennato al fatto che da piccolo Gallas fosse calcisticamente inferiore a suo fratello minore Thierry, su cui si prenderà poi una gustosa rivincita. E Gallas si prende una rivincita anche nei confronti del suo professore di matematica che, quando gli annuncia che da grande farà il calciatore, replica «Calciatore? Non è un lavoro!». William però non vuol sentire ragioni e quando la sua famiglia di vede costretta a fare ritorno in Guadalupa per motivi economici, lui chiede e ottiene da suo padre di poter restare in Francia, all’institut national du football de Clairefontaine, centro di formazione calcistica da cui sono usciti, oltre a lui, anche nomi del calibro di Nicolas Anelka e Thierry Henry, assieme al quale cresce calcisticamente fino ai 17 anni, quando, assieme a sei compagni, passa nel centro di formazione del Caen, a quel tempo in prima divisione. Proprio al Caen conosce Etienne Mendy, ancora oggi il suo procuratore. A Caen gallas rimane due stagione, il tempo di mettere assieme 34 presenze e di farsi notare dal Marsiglia in una stagione sfortunata per il team della Normandia, che terminerà la stagione con la retrocessione in seconda divisione. Gallas però, come già detto, viene notato dal Marsiglia, che però non riesce immediatamente a tesserarlo per via di alcune grane contrattuali, che spingono i dirigenti dell’OM anche a proporgli di tornare a Caen, ma Gallas rifiuta e continua, determinato, ad inseguire il suo sogno: diventare un campione. A fermarlo non ci riesce neppure la frattura dell’alluce che gli consente di giocare appena 3 partite nella sua prima stagione marsigliese. L’anno successivo però il nome del francese finisce sui taccuini di molti grandi club grazie alle ottime prestazioni offerte in Francia ed in Europa, dove l’OM raggiunge la finale di Coppa Uefa poi persa contro il Parma, al fianco di Laurent Blanc. Alle molteplici offerte, Gallas risponde però di no, e decide di restare al Marsiglia, e fa bene: il 19 ottobre segna al Manchester United il gol della vittoria del Marsiglia, ormai è lui l’idolo indiscusso del Velodrome. La partita col Manchester e quella con il Chelsea convincono però Claudio Ranieri che il giovanotto vale la maglia blu del Chelsea, oltre quella della Francia, dove esordirà poco dopo. Al Chelsea Gallas approda per 6 milioni di sterline, e ci resta per 4 stagioni. La rottura arriva nell’estate del 2006, quando Gallas, stufo degli innumerevoli sostituti acquistati per prendere il suo posto, esagera e non partecipa alla tournée americana del Chelsea, e al suo ritorno vede recapitata la maglia con il numero 13 al neo arrivato Michael Ballack. Capisce allora che è tempo di andare via. Lui predilige l’Italia, e Milan e Juventus si fanno sotto, ma alla fine va all’Arsenal nell’affare-Cole. Con i Gunners debutta il 9 settembre 2006 contro il Middlesbrough e due settimane dopo trova la prima marcatura, allo Sheffield United. Il 9 agosto di un anno dopo si vede addirittura promosso capitano, e indossa la fascia per la prima volta il 12, contro il Fulham. Fascia mai più tolta, e chissà che non possa sollevare il titolo, già vinto con la maglia del Chelsea, proprio con la fascia sul braccio.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 3 dicembre 2007

Il Pastore d'oro

Essere scartati da una sponda calcistica di Milano e diventare campioni, bandiere, leggende, sull’altra. È una storia comune a molti: Facchetti, Bergomi e Mea zza, tanto per fare qualche nome, provarono con il Milan salvo poi diventare vere e proprie leggende nerazzurre. Lo stesso accadde a Rivera – primo pallone d’oro milanista – che, dopo essere stato opzionato dall’Inter in seguito ad una segnalazione di Benito Lorenzi, per breve tempo suo compagno di squadra all’Alessandria, fu poi dimenticato dai dirigenti nerazzurri e ad approfittarne furono i milanisti, che vestirono in fretta e furia il Golden Boy di rossonero. Di Rivera abbiamo detto che fu il primo pallone d’oro milanista, e il premio assegnato dalla rivista francese France Football è stato assegnato ad un milanista, che come lui fu “dimenticato” dall’Inter, proprio in settimana. Eh sì, perché Ricardo Izecson dos Santos Leite, per tutti (a partire dal suo fratellino Digão che da piccolo storpiava “Ricardo” in “Kaká”) Kaká, fu scartato dall’Inter prima di diventare il campione che ora conosciamo. Ai nerazzurri fu segnalato dal buon Carletto Mazzone, a cui era stata fatta visionare una cassetta con le giocate dell’allora talentino del San Paolo. «Troppo forte per noi», il giudizio dell’allenatore romano, che lo segnalò all’Inter. In quell’infausto periodo nella Milano nerazzurra era usuale prendere i brocchi e rifiutare i campioni, e così Kaká fu lasciato al San Paolo.
San Paolo, intesa come città, dov’era giunto dopo essere passato per Brasilia, città natia, e Cuiaba. Tutto questo fatto con l’appoggio dei genitori: mamma Simone, insegnante, e papà Bosco, ingegnere civile, che ammettono «Quando Kaká, all’età di 15 anni, ci ha detto di voler essere calciatore professionista lo abbiamo subito appoggiato. Oggi è quello che è, e ne siamo orgogliosi». E i genitori fanno bene ad esserne orgogliosi: oltre che un grandissimo campione, Ricky è un campionissimo anche nella vita. Il 30 novembre 2004 è diventato il più giovane ambasciatore contro la fame del PAM, il programma alimentare mondiale dell'ONU. Fame che da piccolo, però, non ha mai dovuto affrontare. Detto del lavoro dei genitori che gli consentiva di vivere nel Morumbi, quartiere residenziale di San Paolo, a differenza di molti suoi compagni di squadra che al termine delle partite del San Paolo andavano a festeggiare a casa sua con le ciambelle di mamma Simone prima di tornare nelle squallide favelas in cui abitavano. La non-provenienza dalla favelas è stata per Kaká un problema, almeno fino a qualche anno fa. La critica lo accusava di non avere la fame, la rabbia, la volontà di chi era cresciuto pregando che al ritorno a casa dal campetto ci fosse qualcosa in tavola, spesso usando come “arma” un episodio risalente al Brasileirão 2002: nei quarti contro l’Atletico Paranaense Kaká uscì in lacrime dopo 39 minuti a causa del rude trattamento riservatogli da Cocito, difensore del Furacão. Un anno prima però il marito di Caroline, sposata il 23 dicembre 2005 nella chiesa evangelica Renascer em Cristo dopo tre anni di fidanzamento e da poco in attesa dell’erede del pallone d’oro, aveva esordito con la maglia del San Paolo nella finale del torneo di Rio-San Paolo segnando 2 gol in 2 minuti e ammaliando la critica. Non si sbalordì affatto il tecnico Oswaldo che, dopo aver ribadito che Kaká poteva diventare un grandissimo calciatore, aveva ricordato a tutti che il nativo di Brasilia non era neppure al top: veniva infatti dal tuffo in piscina – vuota – che gli era costata la frattura della sesta vertebra. Il rischio della paralisi era stato però scongiurato, come lui assicura, da Dio, al quale è devotissimo. Sulla linguetta copri-lacci di suoi scarpini c’è scritto “Dio è fedele”, ed ha un braccialetto di metallo con la scritta “Jesus” e un nastrino di stoffa con le lettere “OQJF” (“O que Jesus faria?”, cioè “Cosa farebbe Gesù al mio posto?”). La sua segreteria telefonica dice “Sono Kaká. Al momento non posso rispondere. Grazie. Dio ti benedica. Ciao”. Proprio questa sua grande religiosità lo ha spinto a dichiarare «Voglio diventare un pastore evangelico per portare nel mondo la parola di Dio» ai microfoni dell’emittente brasiliana Globo TV. Se così dovesse essere, be’, buona fortuna al primo pastore evangelico con un pallone d’oro sul comodino, dove ha dichiarato che lo metterà.
Antonio Giusto


Fonte: SportBeat

lunedì 19 novembre 2007

Il mio miglior colpo di testa


Christian Panucci segna il gol dell'1-2

Stavolta i protagonisti non sono Carlo Verdone e Silvio Muccino ma Christian Panucci e il Puma v.106 ball da lui scaraventato alle spalle di Gordon sabato sera. Questo però non è il primo colpo di testa di Panucci, ma sicuramente il migliore. In precedenza, infatti, un rifiuto ad entrare in un Roma-Reggina in cui Capello lo aveva tenuto inizialmente in panchina gli costo centodiecimila euro. Una bazzecola, in confronto ad un altro rifiuto di entrare, stavolta ai tempi dell’Inter: Marcello Lippi lo mandò a scaldarsi, poi gli chiese se era pronto ad entrare ed il terzino destro di Savona non lo degnò di risposta. Da allora i rapporti con Lippi peggiorarono sempre più, costandogli il posto in nazionale nell’era da C.T. dell’allenatore viareggino e quindi il mondiale, vinto, del 2006. E proprio dopo il mondiale Panucci era convinto che la nazionale non l’avrebbe mai più neppure sfiorata. A fargli cambiare idea è stato però Donadoni, suo amico e compagno di squadra ai tempi del Milan, che lo ha riconvocato in azzurro tre anni e 3 mesi dopo l’ultima volta in nazionale del terzino destro della Roma, datata 22 giugno 2006, il giorno di Italia-Bulgaria 2-1, ma anche il giorno della partita-farsa Svezia-Danimarca 2-2, che costò agli azzurri l’eliminazione dall’Europeo e a Trapattoni l’esonero. Il Trap andò ad allenare il Benefica, Panucci disse addio alla nazionale visto l’approdo di Lippi sulla panchina azzurra. Il 12 settembre di quest’anno, la svolta: l’Italia gioca una partita decisiva in Ucraina e Donadoni lo richiama in azzurro visto il bisogno di uomini d’esperienza per una partita tanto delicata. Christian risponde presente, e dimostra di valere ancora la nazionale anche nella sfida con la Georgia. Contro la Scozia, dopo aver staccato il pass per Euro 2008, ha esultato soprattutto per aver aiutato un amico, di cui abbiamo già parlato: Roberto Donadoni. I due si sono conosciuti ai tempi del Milan. Milan dove Panucci approdò nel 1993, ad appena 20 anni. In rossonero al primo anno vinse lo Scudetto e la Coppa dei Campioni a cui a breve si aggiunsero un titolo di campione d’Europa under 21 – a cui ne seguirà un altro due anni dopo -, una Supercoppa Italiana ed una Europea. Panucci sembra lanciato verso una carriera di primo piano, e così è, ma non al Milan: un litigio con Sacchi gli fa perdere il posto da titolare, e nel gennaio ’96 fa le valigie ed approda al Real, è la prima meringa italiana. Con i galacticos Panucci vince uno scudetto alla prima stagione e una Champions League alla seconda. Lui però vuole tornare in Italia, e, per farlo, sceglie l’Inter, il posto migliore in cui approdare se sei stato cacciato dal Milan. Ad Appiano Gentile Panucci si allena però per un solo anno, visto che un altro colpo di testa, il suo peggiore, lo porta a litigare con Marcello Lippi, che se ne sbarazza. Tenta allora l’esperienza inglese, al Chelsea di Zola, dove resta però appena mezza stagione, il tempo di giocare 8 partite senza metterla mai dentro e passa al Monaco, dove invece mette il pallone in porta 3 volte in 9 partite. Si guadagna la riconferma nel principato, ma dopo 5 partite estive di campionato, nel 2001 se lo aggiudica la Roma, che aveva già provato a strapparlo all’Inter senza successo. A Roma Panucci trova il suo habitat naturale. In giallorosso approda l’anno dopo lo scudetto, nel 2001/02. Con la Roma è a quota 183 partite, condite da 12 gol. Due di questi sono arrivati il 9 maggio 2007, contro l’Inter nella finale di Coppa Italia, certamente il picco più alto da lui raggiunto in giallorosso. Il 17 maggio dopo la partita di ritorno, ha alzato al cielo la Coppa Italia. E chissà che non possa alzare al cielo un altro trofeo al cielo, il 29 giugno 2008.
Antonio Giusto


Fonte: Sportbeat